Una gigantesca ondata di immigrazione durante l'età del bronzo sostituì la maggior parte della popolazione locale. Ma furono le donne a guidare questo cambiamento…


a cura della redazione, 8 febbraio 

Combinando l’archeologia con lo studio del DNA antico dei resti umani dal sito di Links of Noltland, nella remota isola settentrionale di Westray, un team internazionale di genetisti e archeologi delle Università di Huddersfield e di Edimburgo, hanno dimostrato che le Orcadi hanno subito un’immigrazione su larga scala durante la prima età del bronzo, che ha sostituito gran parte della popolazione locale. I nuovi arrivati furono probabilmente i primi a parlare lingue indoeuropee e portarono antenati genetici derivati in parte da pastori che vivevano nelle steppe a nord del Mar Nero. Una fotografia che, a primo sguardo, rispecchia quello che stava accadendo nel resto della Gran Bretagna e in Europa nel terzo millennio a.C.. 

Eppure, i ricercatori hanno scoperto un’affascinante differenza che rende le Orcadi altamente distintive. In gran parte dell’Europa, l’espansione dei pastori alla vigilia dell’età del bronzo era tipicamente guidata da gruppi locali di uomini. Nelle Orcadi, invece, gli scienziati hanno dimostrato che i nuovi arrivati dell’età del bronzo erano principalmente donne, mentre i lignaggi maschili della popolazione neolitica originaria sopravvissero per almeno altri mille anni, cosa che non si vede da nessun’altra parte. Questi lignaggi neolitici, tuttavia, furono sostituiti durante l’età del ferro e oggi sono incredibilmente rari. Lo studio verrà pubblicato a fine febbraio su PNAS.

Ma perché le Orcadi erano così diverse? Il dottor Graeme Wilson e Hazel Moore della EASE Archaeology sostengono che la risposta potrebbe risiedere nella stabilità a lungo termine e nell’autosufficienza delle fattorie delle Orcadi, rispetto alla recessione a livello europeo, che colpì verso la fine del Neolitico quelle terre. Ciò implica che le Orcadi erano molto meno insulari di quanto si pensasse e che ci fu un lungo periodo di negoziazione tra i maschi indigeni e le nuove arrivate dal sud, nel corso di molte generazioni. “Questo dimostra che l’espansione del terzo millennio a.C. in tutta Europa non è stata un processo monolitico, ma è stato più complessa e varia da luogo a luogo”, spiega in un comunicato il dottor George Foody, uno dei ricercatori principali del progetto dell’Università di Huddersfield. I risultati sono stati sorprendenti sia per gli archeologi che per i genetisti del team, anche se per ragioni diverse: gli archeologi non si aspettavano un’immigrazione su larga scala, mentre i genetisti non prevedevano la sopravvivenza dei lignaggi maschili del Neolitico. 

Il direttore dell’Università del Centro di Ricerca sulla Genomica Evolutiva, il professor Martin Richards, aggiunge nello stesso comunicato: “Questa ricerca mostra quanto dobbiamo ancora imparare su uno degli eventi più importanti della preistoria europea: come sia finito il Neolitico”. La ricerca è stata pubblicata dalla Gazzetta ufficiale della National Academy of Sciences (NAS) ed è intitolata “DNA antico ai confini del mondo: l'immigrazione continentale e la persistenza dei lignaggi maschili neolitici nelle Orcadi dell'età del bronzo”, a cura di Katharina Dulias, George Foody, Pierre Justeau et al. Gli scavi, finanziati dall'Historic Environment Scotland, fanno parte di un programma di borsa di studio del dottorato Leverhulme Trust assegnato al professor Richards e alla dottoressa Maria Pala.


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Un misterioso ominide di 1,5 milioni di anni fa cambia la storia dell’evoluzione umana.…


a cura della redazione, 3 febbraio

Israele e il Levante sono il ponte terrestre naturale tra l’Africa e l’Eurasia. Qui non erano mai state trovate ossa fossili di ominidi della profonda preistoria. Né, fino a poco tempo fa, erano state trovate prove di utensili arcaici. Ora però, nella rift valley del Giordano, a Ubeidiya, è stata scoperta una vertebra di ominide, decisamente sproporzionata, di almeno 1,5 milioni di anni, associata ad asce di tipo acheuleano relativamente avanzate. Nello stesso luogo sono stati trovati anche strumenti di pietra primitivi, che risalirebbero a 3,3 milioni di anni fa. Questo significa che gli archeologi hanno scoperto una nuova specie, un anello mancante nell'evoluzione umana, e che le migrazioni in Africa avvennero in più ondate, in un lasso di tempo che le separa tra loro dai 200.000 ai 300.000 anni.

Nonostante gli scienziati abbiano stabilito che si tratti dell'osso di un nostro possibile antenato, il reperto risulta estremamente più grande rispetto a quello di un habilis erbaceo (simile a una scimmia) e sicuramente più grande anche degli erectus africani, come quello recuperato in Kenya, anni fa. Quello trovato vicino al Mar di Galilea sarebbe appartenuto a un bambino, ma è talmente “grosso” che gli studiosi ne ipotizzano una possibile statura media in età adulta intorno ai 2 metri. Lo studio su questo fossile di ominide, il più antico in Israele, è stato pubblicato il 2 febbraio scorso su “Scientific Reports” da un team internazionale guidato da Alon Barash, della Facoltà di Medicina Azrieli dell’Università di Bar-Ilan.

Il frammento di scheletro è stato dissotterrato nel 1966, ma solo ora lo si è riconosciuto per quello che è in realtà, cambiando i paradigmi della storia dell’evoluzione umana. L’osso trovato a Ubeidiya, a nord di Israele, dimostrerebbe, per la prima volta, una migrazione a ondate di ominidi arcaici dall’Africa durante il Gelasiano, il periodo più arcaico del Pleistocene. A detta dei paleoantropologi, appartiene a un corpo morfologicamente di tipo bipede e proviene dalla parte bassa della schiena, nota anche come regione lombare. Dopo aver fatto una comparazione delle tre vertebre presacrali inferiori (negli esseri umani moderni, nei Neanderthal, negli Australopitechi, e negli scimpanzé) e dopo aver escluso si trattasse di un animale, gli scienziati hanno stabilito la giovane età dell’ominide in base all’ossificazione. Il soggetto da cui proviene la vertebra non aveva finito di crescere. 

Come lo hanno stabilito? La vertebra preistorica non era completamente ossificata e proveniva da un ominide dall’altezza presunta di un metro e mezzo. Il suo peso complessivo sarebbe stato tra i 45 e i 50 chili. Prendendo a parametro l'ossificazione vertebrale dell'uomo moderno, gli studiosi in un primo momento hanno ipotizzato che il bambino del Pleistocene avesse dai 3 e ai 6 anni quando è morto, perché è a quell'età che termina in genere tale processo delle vertebre umane. Il che si tradurrebbe in dimensioni gigantesche inspiegabili. Secondo gli scienziati, potrebbe trattarsi di un modello di ossificazione ritardata, e in tal caso il bambino, pur restando un soggetto molto “robusto”, avrebbe avuto un’età compresa tra 6 e 12 anni alla morte. Un tentativo di adattare i reperti al paradigma convenzionale per non stravolgere tutto? 

La storia dell’osso, inizia nel 1959, quando un membro del Kibbutz Afikim di nome Izzy Merimsky stava demolendo un terreno in preparazione per l’agricoltura. Improvvisamente l'uomo si accorse che la sua macchina stava portando alla luce ossa, inclusi un teschio e alcuni denti. Non sapevano cosa fossero, perché erano irrimediabilmente fuori dal contesto archeologico. Comunque, Merimsky chiamò le autorità. Gli scavi iniziarono nel 1960 e divenne chiaro che il sito era “profondamente” preistorico. Nel 1966, l’archeologo Moshe Stekelis portò alla luce la vertebra che avrebbe cambiato la storia dell’evoluzione umana. Ma non subito. Per qualche motivo l’osso fu messo in una scatola con la scritta “Homo?” – con il punto interrogativo – e dimenticata lì. Dopo vent’anni, la paleoantropologa dell’Università di Tulsa Miriam Belmaker, che stava lavorando sulla ricostruzione del paleoclima dell’Ubeidiya preistorica, rianalizzò tutti i fossili trovati nel sito, per capire se ci fosse un animale tropicale e se l’area era ghiacciata o no all’epoca. Fu allora che riscoprì quel pezzo di spina dorsale. Bastò uno sguardo perché capisse che non era una scimmia. Da allora iniziò un’incessante studio comparativo su tonnellate di vertebre di antichi ominidi, umani moderni, iene, rinoceronti, leoni, scimmie e altri animali sospetti. “Non era un Australopiteco, non un elefante, non un gorilla e neppure un tritone. Ha caratteristiche distinte. Era un ominide bipede e di corporatura molto robusta”, dice Barash su “Haaretz”. 

Datato 1,5 milioni di anni, l’osso è il secondo fossile arcaico di ominide trovato al di fuori dell’Africa. I più antichi risalgono a 1,8 milioni di anni fa e sono stati rinvenuti a Dmanisi, in Georgia, con uno scarto temporale di circa 300.000 anni, il che dimostra l’esistenza di diverse ondate migratorie mai ipotizzate prima. Una scoperta che rende il nostro "lignaggio" sempre più torbido. Oggi per gli scienziati è palese, infatti, che il bambino arcaico trovato nella Valle del Giordano e l’Homo georgicus di Dmanisi non fossero della stessa specie. Inoltre la cultura degli strumenti di pietra del Georgicus è stata catalogata come di tipo oldowan primitivo, e non acheuleano avanzato. Il che porta gli studiosi a ipotizzare che l’ominide di Ubeidiya provenga da un’ondata migratoria separata rispetto a quelle nel Caucaso. Da dove venisse il piccolo "gigante" resta un mistero.


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Un particolare segmento di DNA ridurrebbe il rischio di sviluppare l’infezione critica da COVID-19. Stiamo andando verso nuovi tipi di trattamento a modifica genetica per aumentare la risposta immunitaria?


a cura della redazione, 13 gennaio

Fin dall’inizio della pandemia, gli scienziati hanno studiato alacremente in che modo la genetica del paziente influenzi la gravità di un’infezione da SARS-CoV-2 , esponendo i fattori ereditari che sembrano proteggere le persone o predisporle a gravi manifestazioni della malattia. Ora un metastudio internazionale guidato dai ricercatori del Karolinska Institutet, in Svezia, ha identificato una specifica variante del gene che protegge dall'infezione grave da COVID-19. 

Basandosi sui risultati della fine del 2020, che avevano rivelato numerosi meccanismi genetici legati a casi potenzialmente letali di COVID-19, un team internazionale di ricercatori ha identificato una variante genetica specifica che può conferire protezione da malattie critiche. In un’analisi di 2.787 casi europei di persone positive al coronavirus, incrociati ai dati genetici di 130.997 individui di discendenza africana, i ricercatori hanno identificato un allele nel gene rs10774671 che conferisce protezione contro il ricovero da COVID-19. La variante comune rs10774671 G esiste oggi sia negli africani che negli europei “come risultato della loro eredità dalla popolazione ancestrale comune sia agli esseri umani moderni che ai Neanderthal”, scrivono i ricercatori nel loro articolo.

Nello studio, pubblicato a gennaio su “Nature Genetics” gli scienziati suggeriscono che l’effetto protettivo è dovuto all’influenza esercitata da tale variante sul gene OAS1, che codifica una proteina più lunga e più efficace nell’abbattere il SARS-CoV-2 rispetto alla forma inalterata. “Il fatto che stiamo iniziando a comprendere nel dettaglio i fattori di rischio genetici è la chiave per lo sviluppo di nuovi strumenti contro il COVID-19”, afferma il genetista Brent Richards della McGill University in Canada su Scinece Alert. L’intuizione, però, rischia di portare verso tipi di trattamento a modifica genetica per aumentare la risposta immunitaria.


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Garry Nolan, professore di patologia analizzando i materiali trovati nei siti di incidenti UFO ha scoperto che questi oggetti di metallo hanno una composizione diversa dal normale...


VICE, 10 dicembre 

Garry Nolan, professore di patologia alla Stanford University, possiede 40 brevetti statunitensi, 300 articoli di ricerca ed è conosciuto come uno dei 25 migliori innovatori in ambito universitario. Tuttavia, è più probabile lo si ricordi come il “ragazzo” che analizza i materiali trovati nei siti di incidenti UFO. Intervistato da VICE, per la rubrica "Motherboard Tech", Nolan afferma di essere cresciuto leggendo fantascienza e come la maggior parte di noi è sempre stato interessato a leggere di alieni e UFO. Dopo aver confutato la presenza di malformazioni su un piccolo scheletro di presunta origine aliena, Nolan e il suo team a Stanford hanno attirato l’attenzione della Central Intelligence Agency (CIA), che voleva che indagasse su alcuni piloti che si erano avvicinati agli UFO o, come li chiama la CIA, a Fenomeni Aerei non Identificati (UAP). Quello che l'Agenzia statunitense aveva erano scansioni cerebrali di oltre 100 individui che avevano sperimentato UAP con evidenza di danni. Dopo ulteriori indagini, Nolan si è reso conto che tali danni erano presenti anche nelle scansioni cerebrali di alcuni di questi individui prima dell'esperienza UAP, il che ha portato alla conclusione che la così detta “sindrome dell’Avana” era qualcosa con cui questi individui erano probabilmente nati. Tuttavia, poiché la sindrome è ormai diventata un problema di sicurezza nazionale, Nolan non ha più accesso a quei pazienti. La serie di strumenti di analisi che Nolan aveva sviluppato gli ha dato comunque accesso a materiale solitamente trovato nei siti UAP. Come Nolan ha spiegato nella sua intervista, questi oggetti di metallo hanno una composizione diversa dal normale. Uno dei campioni che ha studiato contiene un isotopo del magnesio che non si trova in natura. Sospetta che sia stato progettato. Non ha una spiegazione per chi potrebbe averlo fatto o perché.  Il lavoro di Nolan attualmente è analizzare questi materiali per capirne l'origine e cosa sono. Una volta compresa la loro struttura a livello atomico, può ipotizzare la loro funzione e tentare di spiegare cosa succede durante un UAP.


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