Un secondo sarcofago di piombo, che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio enigma, è stato rinvenuto nella cattedrale francese.Un elemento unico di tale sepoltura è la forma antropoide del sarcofago, modellato per adattarsi al corpo del defunto. La bara, inoltre, conteneva i resti di un sudario...


a cura della redazione, 10 dicembre

Lo scorso marzo abbiamo parlato del ritrovamento di un sarcofago sotto la navata di Notre Dame, a Parigi. Ne aveva dato notizia l'Istituto Nazionale per la Ricerca Archeologica Preventiva (INRAP), incaricato di scavare il sito prima dell'inizio dei lavori di restauro dopo il violento incendio che aveva devastato la cattedrale il 15 aprile 2019. Inaspettatamente però, durante le indagini è emerso, a un mese di distanza, un secondo sarcofago di piombo, che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio enigma. 

I due sarcofagi sono stati trasportati all’Istituto Forense dell'Ospedale Universitario di Tolosa, dove sono stati esaminati tra il 21 al 26 novembre scorso. Lo studio è stato condotto con indumenti protettivi e strumenti sterilizzati per salvaguardare i lavoratori dal rischio del piombo e le tombe dalla potenziale contaminazione umana. 

Dall'ultima nota stampa, diramata ieri (9 dicembre), scopriamo che si tratta di due sepolture d'elite che risalgono a periodi diversi, e forse molto distanti tra loro. Il secondo sarcofago, infatti, lascia un velo di mistero sulla sua identità e sulla data di sepoltura: rinvenuto in uno strato archeologico più profondo, non era etichettato come il primo feretro da una targa in bronzo, che identifica lo scheletro "più giovane" come Antoine de la Porte canonico della cattedrale di Notre Dame, morto nel 1710. Inoltre, il metodo d'inumazione e alcune caratteristiche insolite per l'epoca lascerebbero dubbi persino sulla retrodatazione della seconda sepoltura, che potrebbe essere anche più antica del XIV secolo.

Un elemento unico di tale sepoltura è la forma antropoide del sarcofago, modellato per adattarsi al corpo del defunto. La bara, inoltre, conteneva i resti di un sudario, foglie all’altezza dell’addome e fiori intorno alla testa, come una corona. I resti scheletrici indicano che il defunto era un uomo di età compresa tra i 24 e i 40 anni. Il suo osso pelvico e la parte superiore delle gambe mostrano che cavalcava fin dalla tenera età e per tale ragione i ricercatori lo hanno soprannominato “il cavaliere”. Oltre a soffrire di una specie di malattia cronica che gli aveva distrutto quasi tutti i denti, quando era solo un bambino il suo cranio, legato con una fascia, era stato deformato. 

La modifica deliberata del cranio è una pratica diffusa in diversi continenti e risale a decine di migliaia di anni fa, utilizzata anche dall’aristocrazia francese e in Italia nell’alto Medioevo. Basti guardare il ritratto di una principessa della Casa d'Este di Pisanello esposto al Louvre. È interessante notare, però, che la parte superiore della calotta cranica del nostro "cavaliere" era stata segata, prova inequivocabile, secondo i ricercatori, che fu imbalsamato. Una pratica, questa, estremamente rara nel Medioevo...


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Dopo essere state separate per 3.000 anni, la scultura di una divinità con testa umana su corpo di serpente, è stata riunita con una misteriosa effige a forma di zampa di uccello rinvenuta 38 anni prima...


a cura della redazione 30 giugno

Dopo essere state separate per 3.000 anni, sepolte in due distinte fosse sacrificali nel sito archeologico di Sanxingdui, nella Cina sud occidentale, una enigmatica scultura di una divinità con testa umana su corpo di serpente, dissotterrata lo scorso giugno, è stata riunita con una misteriosa effige a forma di zampa di uccello rinvenuta 38 anni prima. La statua, in bronzo, era stata fusa in tre parti poi saldate insieme: una base a urna; la parte centrale con la testa antropomorfa con occhi, zanne e corna sporgenti, su un corpo di serpente; e sopra la testa uno zun, un recipiente per bere, a forma di tromba di cinabro. Le tre sezioni combinate costituiscono una scultura alta più di un metro e mezzo che rappresenta una figura mitologica diversa dalle consuete iconografie del regno Shu dell'età del bronzo, cui si pensa appartenga. Gli archeologi ipotizzano si tratti della rappresentazione di una divinità. Quale non è ancora chiaro.

Il corpo serpentino, girato all'indietro, sembra compiere una torsione ascensionale che riflette simbolicamente l'importanza dell'elemento sacrificale nell'evoluzione spirituale di chi nasce a nuova vita, dopo la morte. Inoltre, la figura ha cinque ciocche di capelli ed è unica nel suo genere. Le le altre sculture in bronzo, fino ad oggi rinvenute nel sito, mostrano capelli intrecciati o una sorta di chignon.

La parte con l'artiglio di uccello rinvenuta nel 1986 era chiaramente incompleta, ma gli studiosi non ne comprendevano la funzione né il verso in cui fosse utilizzata. osservandola, sembra la zampa di una creatura che indossa una "gonna aderente" con un motivo a nuvole, da cui emergono due artigli che stringono le teste di due uccelli dal collo lungo. Dopo essere stata esposta per anni a testa in giù al Museo di Sanxingdui, si è scoperto che mancava la sua metà anteriore: la "vita" della "gonna" si adatta perfettamente a un'appendice ricurva sul retro della statua scoperta di recente. 

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Scoperte originariamente alla fine degli anni '20, le rovine di Sanxingdui sono una delle più grandi scoperte archeologiche al mondo del XX secolo. Situate nella città di Guanghan, si ritiene che le rovine, che coprono un'area di 12 chilometri quadrati, siano i resti del regno di Shu, una civiltà che risale ad almeno 4.800 anni fa. All'inizio del 1986, gli archeologi hanno scoperto migliaia di preziose reliquie culturali nelle fosse 1 e 2, tra cui uno scettro d'oro e un albero sacro di bronzo, che hanno suscitato interesse in tutto il mondo. 

Un team congiunto di archeologi dell'Istituto di Ricerca sulle reliquie Culturali e Archeologiche della provincia del Sichuan, l'Università di Pechino, l'Università di Sichuan e altri istituti di ricerca, ha scavato altre sei fosse del sito dal 2020. Gli scavi tra marzo e agosto 2021 hanno portato alla scoperta di oltre 80 tombe antiche e più di 10 siti di rovine di abitazioni che risalgono alla dinastia Zhou occidentale (1046 a.C.- 771 a.C.) e al periodo delle primavere e degli autunni (770 a.C. - 476 a.C.). Nello scavo più recente, gli archeologi hanno trovato 3.155 reliquie relativamente intatte, tra cui più di 2.000 oggetti in bronzo e statue. Finora, nel sito sono stati rinvenuti più di 50.000 oggetti di bronzo, giada, oreficeria, ceramica e avorio.

I ricercatori hanno descritto una scatola a forma di guscio di tartaruga in bronzo e giada come uno dei loro reperti più intriganti, data la sua forma distintiva, l'arte raffinata e il design ingegnoso. Sebbene non sappiamo a cosa servisse, presumono si tratti di un tesoro. Nella stessa fossa numero 8 i ricercatori hanno rinvenuto un altare di bronzo alto quasi un metro. Si pensa fosse utiilizzato per fare offerte al cielo, alla terra e ai loro antenati. Tracce, intorno alle fosse, di bambù, canne, semi di soia, bovini e cinghiali suggeriscono che questi fossero tutti offerti come sacrifici.


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I nostri antenati crearono intricate opere alla luce tremolante del fuoco ispirati da pareidolie rituali. La scienza conferma la complessità cognitiva dell'uomo nel Magdaleniano, senza escludere l’ipotesi di riunioni di tipo sciamanico...


a cura della redazione, 20 aprile

E se gli animali disegnati dall’uomo preistorico non fossero rappresentazioni di vita quotidiana? Potrebbero essere stati utilizzati per riprodurre pareidolie sulle pareti delle caverne alla luce del fuoco, con forme e ombre tremolanti? E se sì, a quale scopo? Un recente studio, condotto dai ricercatori delle Università di York e Durham, pubblicato su PLOS ONE, sembrerebbe confermare l'ipotesi secondo cui il caldo bagliore dei focolari li avrebbe resi il fulcro della comunità per incontri sociali, raccontare storie, ritualizzare l'arte, confermando la complessità cognitiva delle persone preistoriche, senza escludere l’ipotesi di riunioni di tipo sciamanico.

Gli studiosi hanno esaminato una collezione di 50 pietre calcaree rinvenute a Montastruc, un rifugio roccioso nel sud della Francia con un contesto archeologico limitato. Note come placchette, e oggi custodite dal British Museum, furono incise dai cacciatori-raccoglitori tra i 23.000 e i 14.000 anni fa, durante la così detta era Magdaleniana, caratterizzata dal fiorire dell’arte primitiva rupestre. La presenza di bruciature rossastre attorno ai loro bordi suggerirebbe che le pietre siano state accuratamente poste in prossimità di un focolare, per proiettare giochi di immagini e coinvolgere i presenti, per narrare storie o evocare entità soprannaturali.

Per confermare la loro scoperta, gli studiosi hanno utilizzato modelli 3D e software di realtà virtuale, ricreando le condizioni di luce accanto al fuoco e l’esperienza visiva degli artisti preistorici. In precedenza si presumeva che il danno da calore visibile su alcune placchette fosse stato causato da un incidente, ma gli esperimenti hanno mostrato che era più coerente con l’aver posizionato di proposito le pietre vicino al fuoco. “Creare arte alla luce del fuoco sarebbe stata un'esperienza molto viscerale, attivando diverse parti del cervello umano. Lavorare in queste condizioni avrebbe avuto un effetto realistico sul modo in cui le persone preistoriche sperimentavano l'atto creativo di tale forma artistica”, spiega nel comunicato ufficiale l’autore principale dello studio, Andy Needham, del Dipartimento di Archeologia dell’Università di York e co-direttore dello York Experimental Archaeology Research Center

Nel Magdaleniano, diversi contesti archeologici dimostrano che placchette decorate venivano utilizzate insieme a blocchi di calcare non decorati come parte del tessuto di un focolare. La presenza di tracce di riscaldamento sulle placchette di Montastruc potrebbe essere stata direttamente correlata alle forme incise, con gli effetti visivi delle placchette riscaldate che aggiungevano una qualità esperienziale all'arte. Il calcare subisce drammatici cambiamenti fisici quando viene riscaldato, esibendo vividi cambiamenti di colore e fratture o rotture termiche a temperature più elevate, che potrebbero essere state proprietà materiali attraenti per gli artisti di Montastruc. 

Il riscaldamento intenzionale e la fratturazione termica delle placchette decorate è stato precedentemente affermato come una caratteristica importante del loro uso, come mezzo per "sacralizzare" le placchette. Infatti, in siti come La Marche e Labastide, le pietre incise appaiono strettamente associate ai focolari, senza un apparente motivo funzionale. Gli effetti drammatici del riscaldamento di oggetti d'arte portatili sono stati riconosciuti in altri contesti del Paleolitico superiore, come le esplosioni di figurine di loess riportate dal sito gravettiano di Dolni Vĕstonice, nella Repubblica Ceca. Inoltre, l'effetto di una sorgente di luce tremolante sulla topografia ondulata del calcare è considerata dagli studiosi come una caratteristica integrante di alcune forme di arte rupestre parietale, aggiungendo dinamismo alle forme animali raffigurate.

“Potrebbe aver attivato una capacità evolutiva, dove la percezione impone un’interpretazione significativa come la forma di un animale, un viso o uno schema dove non ce n’è. Sappiamo che le ombre e la luce tremolanti migliorano la nostra capacità evolutiva di vedere forme e volti in oggetti inanimati e questo potrebbe aiutare a spiegare perché è comune vedere disegni di placchette che hanno utilizzato, o integrato, elementi naturali nella roccia per disegnare animali o forme artistiche”, aggiunge il ricercatore. Secondo lo studio, la realtà virtuale utilizzata per esplorare gli effetti visivi delle pietre, attraverso i modelli 3D delle placchette di Montastruc, suggerisce che sotto una sorgente di luce dinamica a basso lume le forme incise apparivano animate. L'integrazione delle caratteristiche naturali del calcare e l'animazione delle forme raffigurate alla luce del fuoco sarebbe inoltre strettamente legate e parallele alle arti figurative parietali. Un indizio che spinge gli studiosi sempre più a interpretare le rappresentazioni degli artisti magdaleniani come precisi schemi rituali.


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La scoperta mostra che i Maya organizzavano il tempo in modo rituale molto prima di quanto si credesse in precedenza. Tra le illustrazioni dei loro dei e l'origine del mondo, gli archeologi hanno trovato uno dei primi esempi della scrittura di questa civiltà precolombiana...


a cura della redazione, 13 aprile

Gli archeologi hanno trovato il primo esempio di annotazione del calendario Maya su due frammenti di murales, rinvenuti nelle profondità della piramide guatemalteca di San Bartolo, nella giungla di El Petén, tra migliaia di resti di antiche pareti. Una scoperta che dimostra come i Maya organizzassero il tempo in modo rituale molto prima di quanto si pensasse. Su un frammento sono disegnati un punto e una linea orizzontale, mentre tra la sua parte inferiore e il secondo segmento di gesso è ben visibile la testa di un cervo. 

LO SAPEVI CHE - La data dei “7 cervi” era seguita, nel Tzolk'in, da “8 stelle”, “9 giada/acqua”, “10 cani”, “11 scimmie”... Durante il periodo classico, gli scribi Maya usavano solo raramente la testa di cervo come glifo per il settimo giorno. Invece, era molto più comune usare un segno della mano, che mostrava il tocco del pollice e dell'indice. Ciò può essere spiegato dall'uso stabilito del segno della mano in altre impostazioni come il segno fonetico "chi", che indica in Ch'olan il "chij", derivato dal proto-Maya "kehj". Ciò riflette lo status del Ch'olan come lingua e scrittura di prestigio, usata anche tra le comunità nelle pianure Maya. Sino ad ora il primo uso attestato come "il giorno Cervo" era stato registrarto nel primo periodo classico (dal 200 al 500 d.C.). L'uso della testa di cervo a San Bartolo datato tra il 300 e il 200 a.C. circa, invece, potrebbe rappresentare una fase iniziale dello sviluppo della scrittura Maya, prima che la mano del "chi" puramente fonetico emergesse come forma Ch'olan standard del segno.

Segni che alludono, secondo i ricercatori, allo Tzolk'in, il calendario sacro composto da 260 giorni, rappresentati da glifi e numerati da uno a 13 in modo ciclico, che ricordano la durata della gestazione umana. In particolare si tratterebbe di un chiaro riferimento al giorno dei "7 cervi": il popolo Maya, infatti, scriveva il numero sette con due punti in cima a una linea. Secondo gli studiosi manca, però, il pezzo che riporta il secondo punto, ma contano di trovarlo tra i 249 frammenti che hanno sino ad ora attribuito all'antico calendario. I dettagli di questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Science Advances.

Scoperto nel 2001, da un gruppo di studiosi, guidato da William Saturno, il luogo si distingue per la sua piramide a gradoni, cui sono state attribuite sette fasi costruttive, poste l'una sull'altra. Durante ogni nuova fase le mura coprivano completamente quelle precedenti, includendole all'interno delle fondamenta. 

Gli scavi archeologici nel sito Maya hanno rivelato una serie di importanti dipinti murali risalenti al periodo tardo preclassico (dal 400 a.C. al 200 d.C.). Questi provenivano da un unico complesso architettonico, chiamato Las Pinturas per i colori vivaci utilizzati negli affreschi. Il luogo era associato alle osservazioni astronomiche Maya e alla scienza del calendario, cui afferiscono diverse strutture ausiliarie che definivano l'intero complesso rituale, comprensivo di una piattaforma allungata denominata Ixbalamque

Gli archeologi hanno scoperto più di 7.000 pezzi di gesso e resti delle pareti distrutte. I frammenti che riportano il giorno dei "7 cervi" sono stati attribuiti tra la III e la IV fase costruttiva, quando la piramide centrale era più piccola. Per ampliarla i suoi muri furono abbattuti. Ciò che ha destato maggiormente l'attenzione degli studiosi è il rispetto con cui i Maya trattarono i detriti depositandoli con precisione all'interno della camera ampliata come una sorta di sepoltura simbolica delle immagini e dei testi su di esse custoditi. La cura con cui i Maya smantellarono il murales, come ne hanno rimosso l'intonaco, come lo hanno posto all'interno della camera suggerisce l'esistenza di una regola costruttiva: realizzando la nuova struttura, seppellirono quella vecchia come se la considerassero qualcosa di sacro, là dove nelle immagini dipinte, impregnate di ritualità, era stata impressa la Vita.

Le indagini sulle fondamenta architettoniche di questo complesso rituale hanno rivelato dipinti anche precedenti e un frammento che conteneva importanti prove della prima scrittura geroglifica Maya. I famosi murales policromi di San Bartolo raffigurano divinità e umani in scene di carattere mitologico che ci danno uno spaccato della loro cultura e religione. Sembra furono dipinti all'interno di un tempio, durante la penultima fase del complesso. Con l'aiuto di sofisticate tecnologie di imaging e delle conoscenze accumulate su tale civiltà, i ricercatori sono riusciti a ricomporre scene che mostrano l'origine del mondo secondo l'antico popolo scomparso, del loro dio del mais o del dio del Sole che sorge sulla montagna.

Gli archeologi hanno anche trovato glifi che forniscono nuovi indizi sugli aspetti chiave di questa antica cultura. Uno è il primo riferimento scritto abbinato a una figura su un trono in dipinti che precedono di 100 anni la monarchia di Tikal, Ceibal o Palenque. Datato tra il 300 e il 200 a.C. circa, è considerato uno dei primi esempi di scrittura precolombiana del Mesoamerica, testimoniando che già allora esistevano una complessa organizzazione sociale e una gerarchia del potere. Precedenti scoperte di iscrizioni geroglifiche al San Bartolo hanno dimostrato che i sistemi di scrittura si erano sviluppati nell'area delle pianure Maya centrali molto prima di quanto si pensasse in precedenza. I primi esempi di scrittura geroglifica Maya, trovati a Oaxaca, in Messico, risalgono al 400 a.C. circa, quelli di San Bartolo risalgono al 300 a.C. circa, un indicatore significativo di espansione in un breve lasso di tempo, considerando che San Bartolo si trova più di 800 chilometri a sud-est di Oaxaca.


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Esposti finalmente al pubblico quattro busti dell’età del ferro e un secchiello rituale in legno dei primi secoli a.C. trovati in un villaggio della Bretagna. È possibile che un tempo fosse un set con uno scopo religioso, profanato e bruciato...


a cura della redazione, 4 aprile

Quattro busti dell’età del ferro e un secchiello in legno ben conservato sono stati presentati al pubblico per la prima volta in una mostra al Musée de Bretagne - Les Champs Libre a Rennes, in Bretagna. Il secchio è l'unico in Bretagna ad essere stato trovato in un pozzo invece che in una tomba. I cinque oggetti sono stati scoperti nell’autunno del 2019 in uno scavo a Trémuson che si è rivelato essere una grande tenuta dell’élite gallica occupata e modificata tra il III e il I secolo a.C..
La prima scultura è stata trovata a faccia in giù, deposta accuratamente in una fossa scavata su misura nei pressi di una grande casa. È il busto in pietra di un uomo con i capelli e la barba accuratamente raffigurati. 

Questo personaggio apparteneva chiaramente a un'importante famiglia della città di Osismes che occupava allora questa parte della penisola bretone. Indossa infatti una torque, una collana formata da un'asta di metallo rifinita da sfere o dischi, concessa dalle città galliche in maniera onoraria ai loro membri più valorosi. La parte inferiore dell'opera, incompiuta, termina in un punto: originariamente doveva essere collocata nel terreno o in altro materiale. Viene interpretato come un'effigie destinata a perpetuare la memoria del defunto e la grandezza della sua famiglia. 

LO SAPEVI CHE - Meno di trenta sculture di questo tipo sono registrate su tutto il territorio nazionale, quasi la metà in Bretagna. Le quattro opere di Trémuson fanno eco ai quattro busti scoperti più di vent'anni fa durante gli scavi della residenza aristocratica gallica di Paule, nei pressi di Carhaix, raffiguranti un bardo con la sua lira.

Dopo aver scoperto la prima scultura, gli archeologi hanno deciso di esplorare il pozzo dietro la casa, profondo 6 metri. Qui sono state rinvenute altre tre sculture a torso nudo, modellate più grossolanamente. I quattro busti recano tutti tracce di bruciature. È possibile che un tempo fosse un set con uno scopo religioso, profanato e bruciato nel I secolo a.C., utilizzato dai druidi, i sacerdoti, depositari della cultura tradizionale celtica, dello studio degli astri e dei loro movimenti, della grandezza del mondo e della terra, della natura delle cose, della forza e potestà degli dei immortali.

Il terreno impregnato d’acqua del pozzo abbandonato aveva conservato gli oggetti, inclusa una grande quantità di legno, gettato al suo interno: assi carbonizzati e altri elementi architettonici tra cui pali e travi. Le assi potrebbero aver fatto parte della copertura del pozzo nel suo periodo di massimo splendore. In totale, il team ha recuperato 460 pezzi di legno impregnato d’acqua, la maggior parte dei quali frammentari e parzialmente carbonizzati dal fuoco. In fondo al pozzo c’erano i tre busti, pezzi di mobili in legno, un maglio di frassino, un secchio cilindrico di quercia, diverse doghe e l’eccezionale secchio da cerimonia a treppiede.

Realizzato in legno di tasso, circondato da due cinghie di bronzo e decorato con piatti in bronzo traforati, il secchio a treppiede risale alla seconda metà del II secolo a.C.. Veniva probabilmente utilizzato durante cerimonie druidiche per servire una bevanda sacralizzata. Il secchio è quasi completo, mancano solo alcuni piccoli pezzi traforati e accenti di metallo. Ha un foro di scarico sul fondo che ha ancora il suo tappo d’acero in posizione. Il maglio era frammentato a causa di una frattura nella mortasa. Ha anche perforazioni da falegnameria, segni visibili di una lama da pialla sul lato inferiore della testa, e piccoli tasselli utilizzati per rinforzare le doghe nei loro punti di connessione, ancora saldamente in posizione. I fragili pezzi di legno sono stati imbevuti di PEG (soluzioni di glicol polietilenici) per rimuovere l'acqua nelle celle, sostituendola con una sostanza cerosa per impedire al legno di deformarsi e restringersi mentre si asciuga. Il processo è durato due anni. Conservato e stabile, il secchio sacerdotale, insieme alle quattro sculture, rimarrà in esposizione fino al 4 dicembre 2022.


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Scoperto nel villaggio di Çitli il primo esempio d gioiello da polso con raffigurazioni figurali dell'antico popolo indoeuropeo, realizzato 3.300 anni fa...


a cura della redazione, 27 marzo

Nel 2011 un uomo fece un’insolita scoperta archeologica, mentre arava la sua fattoria nel villaggio di Çitli, nella Turchia centro-settentrionale. Nonostante le pesanti macchine agricole lo avessero frantumato in tanti pezzi, si rese conto che aveva tra le mani un oggetto molto antico. Ne raccolse tutte le parti e le portò al Museo di Çorum. Gli esperti lo hanno identificato come un raro braccialetto del XIII secolo a.C.. Il luogo esatto del ritrovamento è rimasto sconosciuto, poiché il contadino aveva arato cinque campi quel giorno, e nonostante successive indagini archeologiche non sono stati rinvenuti in quei luoghi altri manufatti. Dopo un ampio restauro, gli esperti hanno scoperto dalle raffigurazioni figurali presenti sul bracciale che appartiene all’antica civiltà ittita, l’unico ritrovato sino ad ora, costituito da una lunetta ellittica di metalli preziosi, una forma in precedenza presente solo nei sigilli ad anello di questo popolo. Il misterioso manufatto è finalmente stato esposto al pubblico, per la prima volta, al Museo Archeologico di Çorum, come riporta il Daily Sabah

LO SAPEVI CHE - Le divinità ittite erano molte: la storia lo tramanda come il popolo dei mille dei. Essi facevano propri tutti quelli venerati dai popoli che conquistavano, in quanto credevano che questo conferisse loro più potere. Inoltre gli ittiti fecero proprie le diverse divinità anatoliche, chiamandole con il nome hattico. Nel Pànteon ittita la dea Ishtar era identificata con Shaushka, raffigurata con le ali, in piedi su un leone; aveva due seguaci, Ninatta e Kulitta. Fu venerata nel Regione del Toro, soprattutto a Samuha. Il re ittita Hattusilis III la prese come sua dea protettrice. Tale divinità, cui venvano attributi al contempo attribti di compassione e giustizia, aveva anche attributi maschili: poteva punire i bestemmiatori e gli autori di spergiuro con la riassegnazione di genere. Nei testi ittiti, si trova spesso accompagnata da  Sintal-wuri, Sintal-irti e Sintal-taturkani, i cui nomi hurriti si riferiscono tutti al numero sette. È nella processione degli dei Yazilikaya, santuario di Hattusa, la capitale dell'impero ittita tra il 1700 a.C. e il 1200 a.C. (si trova a 70 miglia a sud-ovest del sito di ritrovamento), la dea è raffigurata con le sue due ancelle.

L’antico oggetto, di cui manca una sezione al centro, è realizzato in una lega di rame, stagno e arsenico e misura circa 7 centimetri di diametro nel punto più largo. È formato da una fascia modellata a forma ellittica con le punte piegate all’indietro e forgiate insieme a formare un anello. Una piastra montata sull’ellisse è ornata da una scena di figure in rilievo eseguita con la tecnica dello sbalzo, incorniciata da un bordo di semicerchi e linee. 

LO SAPEVI CHE Gli Ittiti erano un antico popolo indoeuropeo che abitava la parte centrale dell’Asia Minore nel II millennio a.C. e il più noto degli antichi popoli anatolici. Il primo riferimento si trova nell’Antico Testamento, dove vengono menzionati come Chittim o Hitti, da cui ebbe origine in greco chetaios (o chettaios) che in latino diventò hetaeus o hettaeus. Il termine venne ripreso in mano da Lutero che lo tradusse come Hethiter in tedesco, passato poi in italiano come Ittita.

Al centro del rilievo a sbalzo è posta una figura stante, cui segue una processione di libagioni che si muove verso l’interno da entrambe le estremità dell’ellissi. Su i due lati della fascia, sia a sinistra sia a destra, è inciso una sorta di altare con gambe ricurve, che terminano con una zampa di animale. 

LO SAPEVI CHE - Agli dei veniva offerto da mangiare, anche per mezzo di sacrifici animali. Questo è testimoniato dalla presenza di magazzini attorno ai templi. Solo dopo che le divinità avevano mangiato, il popolo ed i sacerdoti potevano prendere parte al banchetto. Ishtar era la divinità femminile più importante nella civiltà assiro-babilonese. Era dea dell’amore e della guerra, sorella gemella del Sole (Samash) e figlia della Luna (Sin), e nel culto astrale si identificava con Venere. I sumeri la assimilarono con la loro Inanna, dea della madre terra e della fecondità, e il culto di Ishtar si diffuse poi anche fuori dalla Mesopotamia ai popoli vicini: in tutta l’Asia occidentale Ishtar divenne la personificazione della fertilità e della maternità. Fu venerata da semiti, ittiti, hurriti, fenici, siriani; penetrò anche nel mondo greco-romano col nome di Astarte. Fu protagonista di numerosi poemi epico-mitologici, fra cui quello della sua discesa agli Inferi e quello dell’epopea del semidio Gilgamesh.

I due “altari” sono drappeggiati con un telo che sembra coprire le offerte. Sul lato sinistro di ciascuno di essi sono posizionate due figure femminili (di una rimane solo la parte posteriore della testa) che si snodano verso destra, con il braccio sinistro che porta qualcosa, mentre il destro è visibilmente piegato verso l’alto. Di fronte a loro c’è un’altra figura con tratti più definiti. Le sue gambe sono di profilo e rivolte verso destra, mentre il busto è posizionato frontalmente. Indossa un indumento in due pezzi con una sorta di gonna, un mantello. Sulla sua spalla destra si intravede un’ala. Tutti questi particolari sono stati sufficienti per identificare la figura centrale come la dea Ishtar. Per gli archeologi, invece, le due figure femminili di fronte alla dea sono Ninatta e Kulitta. Una scena simile era stata trovata in precedenza su alcuni sigilli ittiti e rilievi rupestri.


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Gli archeologi scoprono, in una tomba consacrata al Dio dagli Occhi Chiusi, gli strumenti di un chirurgo della cultura Sicán...


a cura della redazione, 22 marzo

Un fascio funerario scoperto in una tomba del periodo del Medio Sicán (900-1050 d.C.) nel sito archeologico di Huaca Las Ventanas nella regione di Lambayeque in Perù include una serie di strumenti che indicano che il defunto era un chirurgo: una cinquantina di coltelli di diversi tipi, aghi di varie dimensioni con i rispettivi fili e residui di corteccia utilizzata per infusi e analgesici. Questa è la prima scoperta del genere mai fatta a Lambayeque o nel nord del Perù. Il fascio funerario è stato portato alla luce dagli archeologi del Museo Nazionale di Sicán in uno scavo nella necropoli meridionale di Huaca Las Ventanas. È stato rimosso insieme al terreno e al contesto sabbioso per proteggerlo dall'erosione e dalle inondazioni dell'adiacente fiume La Leche. Il materiale recuperato era stato trasportato al museo. Solo un decennio dopo, però, una sovvenzione del National Geographic Donation Fund concessa al museo nel 2021, ha permesso di esplorare completamente la sepoltura. Lo scavo ha avuto luogo tra ottobre 2021 e gennaio di quest'anno. All'interno del fascio c'era una maschera d'oro dipinta con cinabro, un grande pettorale di bronzo, ciotole di rame dorato e un indumento simile a un poncho con lastre di rame. Sotto il poncho c'era un vaso di ceramica con un doppio beccuccio e un manico a ponte ricurvo con una piccola figura all'apice che rappresentava il Re Huaco. 

Il kit chirurgico contiene un set completo di punteruoli, aghi e coltelli di varie dimensioni e configurazioni.Ci sono circa 50 coltelli in totale. La maggior parte sono una lega di bronzo ad alto contenuto di arsenico. Alcuni hanno manici in legno. C'è anche un tumi, un coltello cerimoniale con lama a mezzaluna. Accanto al tumi c'era una planchette di metallo con un simbolo associato a strumenti chirurgici. Accanto alla planchette sono state rinvenute due ossa frontali, una adulta e una giovanile. I segni sulle ossa indicano che sono stati deliberatamente tagliati con tecniche di trapanazione. Ciò ha confermato che gli strumenti erano destinati all'uso in chirurgia. Sebbene gli strumenti siano unici per la regione, un ritrovamento simile è stato fatto a Paracas nel 1929. Gli strumenti sono tuttavia realizzati con materiali diversi. Le lame del set di Paracas sono state realizzate con ossidiana vulcanica affilata.

È la prima scoperta di questo tipo qui a Lambayeque e nel nord del Paese. Risale dall'anno 900 al 1050 dopo Cristo, di appartenenza culturale del Medio Sicán. Non stiamo solo documentando figure d'élite di culto legate alla metallurgia, ma anche specialisti e interventi chirurgici”, ha sottolineato il Direttore del Museo Nazionale Sican Carlos Elera su Andina.

Un pezzo di corteccia di un albero sconosciuto trovato nel fascio potrebbe essere stato usato per scopi medicinali, quali infusioni analgesiche o antinfiammatorie, come la corteccia di salice bianco che ancora oggi è considerata fondamentalmente un tè di aspirina.

Sarà studiato per scoprire a quale specie appartenesse, quale uso avesse allora come oggi. Ovviamente, sarà necessario anche un confronto dettagliato con gli strumenti chirurgici rinvenuti a Paracas. Ce ne sono alcuni che coincidono e altri no. Tra i reperti di Lambaye, abbiamo l'asta del Dio della Maschera con gli Occhi Chiusi, un elemento sempre presente”, che deve essere antropologicamente contestualizzato secondo lo studioso.

Poco distante, nella Huaca Santa Rosa de Pucalá, situata nell'omonimo distretto, nella regione di Lambayeque, i ricercatori hanno scoperto quattro tombe contenenti i resti di bambini e adolescenti sepolti come offerte al momento della costruzione della prima delle tre contenitori in stile Wari con una forma a "D". Questi reperti fanno parte di un possibile rituale svolto al momento dell'inizio della costruzione di questi spazi religiosi in stile wari. Nel secondo recinto a forma di “D” è stata scoperta una tomba con offerte legate ad una tradizione locale durante la Fase 3 di Santa Rosa (850 – 900 dC). La tomba conteneva una brocca con iconografia Mochica, una bottiglia nel noto stile del primo Sicán (dalla valle di La Leche) o in stile proto-Lambayeque (dalla valle di Jequetepeque), una pentola con decorazione paleteado e un coltello o tumi con una lama a forma di mezza luna.

Tali scavi hanno rivelato, per la prima volta, l'esistenza di un tempio del periodo formativo , contemporaneo alla fine della cultura Chavín, che ha caratteristiche totalmente diverse da quelle precedentemente trovate a Lambayeque. Costruito con muri fatti di fango come cassaforma, che includono mazze di argilla come prototipi di mattoni all'interno delle mura, ha una pavimentazione molto elaborata, soffitti realizzati con resti vegetali e mostra prove dell'incenerimento di oggetti. Secndo gli studiosi questo tempio fu costruito da un gruppo umano con caratteristiche locali legate alle montagne , a dimostrazione che negli anni dal 400 al 200 a. C. c'erano diverse comunità sulla costa con interazioni verso la montagna e che mostrano anche marcate differenze con i gruppi del Periodo Formativo che si trovano nella parte bassa della valle, a Collud e Ventarrón.


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Rinvenuti nel parco archeologico di Velia-Paestum i resti del più antico tempio arcaico dedicato alla dea, risalenti alle prime fasi di vita della città fondata intorno al 540 a.C. ...


Parco Archeologico Velia, 1 febbraio 

Scoperti nel parco archeologico di Velia-Paestum i resti del più antico tempio arcaico dedicato ad Athena risalenti alle prime fasi di vita della città fondata intorno al 540 a.C. Da anni si ipotizzava l'esistenza di una struttura sacra antecedente al tempio maggiore dell'Acropoli e gli scavi hanno riportato alla luce resti di muri, realizzati con mattoni crudi e intonacati, di quello che doveva essere un edificio rettangolare lungo quasi 20 metri. Ritrovate anche ceramiche dipinte, vasi con iscrizioni, frammenti metallici di armi e armature e due elmi, uno calcidese e un altro di tipo Negau - di epoca etrusca - in ottimo stato di conservazione. 

Sulla base di precedenti ricerche archeologiche avviate negli anni ’20 del secolo scorso, e proseguite con discontinuità fino agli anni ’90, si ipotizzava, anche se con forti dubbi, l’esistenza di una struttura sacra arcaica antecedente al tempio maggiore dell’Acropoli di Velia. In particolare si pensava ad una sua collocazione sul terrazzo più elevato della punta occidentale dell’Acropoli. I recenti scavi non solo hanno confermato l’esistenza di un edificio sacro ma ne hanno anche precisato la collocazione, la planimetria, la cronologia e il rapporto con le strutture più recenti. 

Gli archeologi del Parco hanno, infatti, riportato alla luce resti di muri realizzati con mattoni crudi, intonacati e fondati su zoccolature in blocchi accostati in poligonale, una tecnica utilizzata anche per le abitazioni di età arcaica rinvenute lungo le pendici dell’acropoli. Tali testimonianze disegnano un edificio rettangolare lungo almeno 18 metri ed ampio 7. La porzione interna della struttura è pavimentata con un piano in terra battuta e tegole, sul quale, in posizione di crollo, sono stati rinvenuti elementi dell’alzato, ceramiche dipinte, vasi con iscrizioni “IRE”, ovvero “sacro”, e numerosi frammenti metallici pertinenti ad armi e armature. 

Tra questi, due elmi, uno calcidese e un altro di tipo Negau, in ottimo stato di conservazione. “I rinvenimenti archeologici presso l’acropoli di Elea-Velia lasciano ipotizzare una destinazione sacra della struttura“, dichiara il Direttore Generale dei Musei e Direttore Avocante del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Massimo Osanna, nel comunicato stampa. Con tutta probabilità in questo ambiente vennero conservate le reliquie offerte alla dea Athena dopo la battaglia di Alalia, lo scontro navale che vide affrontarsi i profughi greci di Focea e una coalizione di Cartaginesi ed Etruschi, tra il 541 e il 535 a.C. circa, al largo del mar Tirreno, tra la Corsica e la Sardegna. Liberati dalla terra solo qualche giorno fa, i due elmi devono ancora essere ripuliti in laboratorio e studiati. 

Al loro interno potrebbero esserci iscrizioni, cosa abbastanza frequente nelle armature antiche, e queste potrebbero aiutare a ricostruire con precisione la loro storia, chissà forse anche l’identità dei guerrieri che li hanno indossati. Certo si tratta di prime considerazioni che già così chiariscono molti particolari inediti di quella storia eleatica accaduta più di 2500 anni fa. Gli scavi hanno anche chiarito la cronologia del principale tempio della città dedicato alla dea Athena. La costruzione del tempio maggiore, almeno di una sua prima fase, deve collocarsi cronologicamente dopo la struttura sacra riportata alla luce in questi ultimi mesi. In seguito, in età ellenistica, l’intero complesso riceverà una completa risistemazione con la realizzazione di una stoà monumentale che cingerà il tempio maggiore e il piano di uso si eleverà a coprire tutte le fasi precedenti.

La struttura del tempio più antico risale al 540-530 a.C., ovvero proprio gli anni subito successivi alla battaglia di Alaliafa notare Osannamentre il tempio più recente, che si credeva di età ellenistica, risale in prima battuta al 480-450 a. C., per poi subire una ristrutturazione nel IV sec. a C. È possibile quindi che i Focei in fuga da Alalia l’abbiano innalzato subito dopo il loro arrivo, com’era loro abitudine, dopo aver acquistato dagli abitanti del posto la terra necessaria per stabilirsi e riprendere i floridi commerci per i quali erano famosi. E alle reliquie da offrire alla loro dea per propiziarne la benevolenza, aggiunsero le armi strappate ai nemici in quell’epico scontro in mare che di fatto aveva cambiato gli equilibri di forza nel Mediterraneo.”

Il lavoro, grazie ad un’ampia squadra di professionisti e collaboratori, dà risposta a questioni aperte da oltre settant’anni, su cui si sono espressi nel corso del tempo numerosi eminenti studiosi. I risultati hanno chiarito topografia, architettura, destinazione d’uso e cronologia delle varie fasi dell’Acropoli, dall’età del Bronzo al periodo ellenistico. – dichiara l’archeologo del Parco, Francesco Uliano Scelza nello stesso comunicatoAdesso si lavora ad ulteriori progetti che la presente ricerca ha ispirato, di fruizione, studio e valorizzazione. Tra questi, la rimodulazione dell’Acropoli, da rendere visibile e visitabile in ogni sua parte e la rielaborazione dei luoghi espositivi della Cappella Palatinae e della chiesa di Santa Maria, in modo da rendere ancora più attraente il già suggestivo paesaggio di Velia”. In considerazione dei risultati importanti delle ricerche saranno programmate dal Parco nuove indagini per ricostruire la storia della colonia greca.


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Il ritrovamento monumento religioso millenario testimonia l’esistenza di un importante centro di culto e pellegrinaggio…


Università Ca' Foscari Venezia27 gennaio 

Gli archeologi hanno trovato uno dei più antichi templi buddisti conosciuti nella città di Barikot, nella regione dello Swat in Pakistan, lungo un antico asse viario. Gli scavi della missione 2021, condotti nell’ambito di una missione italiana in collaborazione con l’Associazione Internazionale per gli Studi Mediterranei e Orientali (ISMEO), hanno portato alla luce un Tempio Shahi dedicato a Vishnu, che misura 21 per 14 metri. In attesa delle datazioni al carbonio-14, le indagini indicano che fu costruito sopra un antico edificio di culto preesistente, databile intorno al 700 a.C. e demolito al tempo della dinastia Ghaznavid, dopo l'anno 1000 d.C.. Secondo il professor Luca Maria Olivieri dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (Dipartimento di Studi Asiatici e Nordafricani), “a quel tempo, Swat era già una terra sacra per il buddismo”.

Oltre all’antica acropoli, gli archeologi hanno scoperto una piccola necropoli, che è stata esplorata in collaborazione con Massimo Vidale dell’Università di Padova. Il tempio scoperto nel 2021 e altri due santuari buddisti scoperti negli ultimi anni si trovano ai lati dell’antica strada, una “via dei templi” lungo la via principale che collegava la periferia della città con l’acropoli. L’antico tempio buddista, alto fino a tre metri, fu costruito su un podio absidale su cui si erge una struttura cilindrica che ospita un piccolo stupa. Sulla facciata del tempio si trova uno stupa minore e il podio di un pilastro o colonna monumentale, oltre ad una serie di stanze del vestibolo che un tempo conducevano ad un ingresso che si apriva su un cortile pubblico. Sulla scalinata che conduce alla cella un’iscrizione dedicatoria in Kharosthi. L’altra metà del gradino è stata ritrovata capovolta, riutilizzata come solaio nella fase successiva del monumento. 

Barikot fu abitata ininterrottamente dalla Protostoria (1700 a.C.) fino al Medioevo (XVI secolo d.C.) e conserva oltre 10 metri di stratigrafia archeologica. La parte del tempio in superficie risale all’incirca alla seconda metà del II secolo a.C., ma potrebbe essere anche più antico, del periodo Maurya, III secolo a.C.. Gli scavi hanno anche rivelato che il monumento è stato costruito sui resti di una struttura precedente affiancata da un piccolo stupa arcaico che precede il periodo indo-greco. Questa scoperta getta nuova luce sulle forme dell'antico buddismo e sulla sua diffusione nell'antico Gandhara, aggiungendo un tassello al puzzle di ciò che sappiamo dell’antica città. Lo scavo è stato condotto da Elisa Iori (Max-Weber Kolleg, Universität Erfurt) vicedirettore della Missione, e Michele Minardi (Università LOrientale di Napoli). La prima missione archeologica italiana in Asia fu avviata da Giuseppe Tucci nel 1955 ed è attualmente guidata dal professor Olivieri, con il cofinanziamento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dalla Direzione Archeologia, del Musei KP Province (DOAM KP) e del Museo Swat.


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Una missione tedesco-egiziana ha portato alla luce una collezione di enormi pezzi di calcare appartenenti a una coppia di sfingi reali, nonché i resti di pareti e colonne decorate con scene festive e rituali a Luxor...


Ahram Online, 13 gennaio 

Una coppia di sfingi calcaree e pezzi di pareti e colonne decorate con scene festive e rituali, sono stati portati alla luce nel tempio di Amenhotep III di Luxor da un team di ricercatori tedesco-egiziani guidati dall'archeologo Hourig Sourouzian. Mostafa Waziri, segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità ha detto che le colossali sfingi, che misuravano circa 8 metri di lunghezza, sono state trovate semi sommerse nell’acqua, sul retro dell’ingresso del terzo pilone, poste presumibilmente all’inizio del percorso processionale che porta alla Corte del Peristilio. Le loro teste raffigurano Amenhotep III che indossa il copricapo a strisce di nemes, la barba reale e un ampio colletto intorno al collo. 

La pulizia del calcare ha rivelato l’iscrizione “l’amato di Amon-Ra" su uno dei pettorali. Le basi delle colonne e i blocchi di fondazione trovati nella parte meridionale della sala ipostila del tempio indicano che la struttura era più grande e aveva più colonne di quanto si pensasse in precedenza, mentre le decorazioni murali in arenaria mostrano immagini della festa giubilare di Heb-sed di Amenhotep III. Basi di colonne e blocchi di fondazione nella metà meridionale della sala ipostila mostrano che questa sala era molto più grande di quanto si pensasse e con più colonne. La missione ha anche scoperto tre busti e tre parti inferiori di statue della dea leonessa Sekhmet in granodiorite sulla facciata della Corte Peristilio e nella Sala ipostila del tempio. Questi pezzi verranno riassemblati con altri trovati in precedenza nel sito e saranno esposti nel tempio.


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Un team di archeologi ha identificato una serie di strutture rituali in precedenza sconosciute nel Parco Nazionale di Machu Picchu, in Perù


Journal of Archaeological Science, gennaio 2022

Un team di archeologi dell'Università di Varsavia ha identificato una serie di strutture in precedenza sconosciute nel Parco Nazionale di Machu Picchu, in Perù. Una scoperta resa possibile dall’uso di droni, sopra la volta della foresta, dotati di Light Detection and Ranging (LiDAR), una tecnologia che permette di ricreare una rappresentazione digitale 3D delle strutture anticamente edificate dall’uomo, nascoste sotto la vegetazione, grazie alla variazione dei tempi di riverbero delle lunghezze d'onda del laser. Lo studio, pubblicato sul numero di gennnaio 2022 del “Journal of Archaeological Science”, si è concentrato sul complesso Inca di Chachabamba, un centro cerimoniale associato all'acqua che comprende diversi santuari e bagni legati a tale elemento animico. Analizzando i dati LiDAR, sono emerse 12 piccole strutture erette su pianta circolare e rettangolare alla periferia del complesso. Secondo Dominika Sieczkowska del Centro di ricerca andina dell'Università di Varsavia, ci sono indicazioni che siano state principalmente le donne a prendersi cura del complesso, come suggerito da oggetti scoperti durante precedenti scavi dal team polacco-peruviano. Gli studi effettuati hanno anche rilevato canali precedentemente sconosciuti che fornivano a Chachabamba l'acqua del vicino fiume Urubamba attraverso un sistema di blocchi di pietra parzialmente sotterranei.


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La nuova datazione al radiocarbonio di alcuni dei 10.000 monoliti di pietra nel sito archeologico di Sakaro Sodo, nel sud dell'Etiopia, indica che il più antico dei monumenti stele alti sei metri a forma di fallo è estratto, eretto e scolpito nel I secolo d.C., circa 1.000 anni prima di quanto si pensasse in precedenza. Nonostante la natura impressionante del sito archeologico, si sa poco sul perché o su come siano stati costruiti i monoliti...


Washington State University (WSU), 9 dicembre

La nuova datazione al radiocarbonio di alcuni dei 10.000 monoliti di pietra nel sito archeologico di Sakaro Sodo, nel sud dell'Etiopia, indica che il più antico dei monumenti stele alti sei metri a forma di fallo è estratto, eretto e scolpito nel I secolo d.C., circa 1.000 anni prima di quanto si pensasse in precedenza. Nonostante la natura impressionante del sito archeologico, si sa poco sul perché o su come siano stati costruiti i monoliti. Per l’archeologo Ashenafi Zena, autore principale dello studio ed ex ricercatore di dottorato della WSU ora presso la State Historical Society of North Dakota, e Andrew Duff, professore di antropologia alla WSU, le pietre nella zona di Gedeo variano per dimensioni, funzione e disposizione nel paesaggio, e alcune sono state scolpite con volti o altri disegni. I monumenti disposti in uno schema lineare possono aver commemorato il trasferimento di potere o un rito iniziatico, mentre si pensa che alcune delle pietre più recenti a Tuto Fela siano state utilizzate come segni di sepoltura. Le nuove date suggeriscono che i monumenti più antichi furono eretti all'incirca nello stesso periodo in cui furono introdotti nella regione l'addomesticamento degli animali e sistemi sociali ed economici più complessi. Oltre a spostare di un millennio la data della prima costruzione dei monoliti, i ricercatori hanno anche determinato dove gli antichi costruttori del sito probabilmente estraevano la pietra grezza per il progetto. Hanno anche identificato, per la prima volta, le prime fonti conosciute di manufatti di ossidiana che sono stati recuperati dai siti delle stele di Gedeo. Sorprendentemente, la maggior parte dell'ossidiana che i ricercatori hanno identificato a Sakaro Sodo proviene da circa trecento chilometri di distanza, nel nord del Kenya, dimostrando che le persone di quei luoghi ricavavano le loro materie prime attraverso lo scambio o il commercio.


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