Tracce della presenza umana, 12.000 anni prima di quanto si pensasse, associate a tecniche presenti solo in Africa o nel Levante, scoperte in una gotta nella Valle del Rodano, dove l’Homo sapiens e i Nenderthal si alterarono a ondate per 40.000 anni…


a cura della redazione, 11 febbraio

Le testimonianze culturali e antropologiche della Grotta di Mandrin mostrano l’arrivo dell’Homo sapiens, nel cuore dei territori dei Neanderthal, 12.000 anni prima di quanto si pensasse, associate misteriosamente a tecniche presenti solo in Africa o nel Levante. Siamo nel sud della Francia, dove Sapiens e i Nenderthal si alternarono a ondate inspiegabilmente periodiche per ben 40.000 anni. A suggerirlo, la scoperta del dente di un bambino di quasi 56.000 anni fa e di strumenti di pietra nella stessa grotta. Questa incursione umana della prima età moderna nella Valle del Rodano è associata a tecnologie sconosciute di quell’epoca. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista Science Advances (PDF). I reperti sono stati scoperti, da un team guidato dal Prof , membro permanente del CNRS dell’Università di Tolosa, dimostrando che questa popolazione è scomparsa nel nulla. Ancora una volta si dovranno riscrivere i nostri libri di storia.

Arroccato a circa 100 metri sulle pendici delle Prealpi nel sud della Francia, un umile riparo roccioso si affaccia sulla valle del fiume Rodano. È un punto strategico del paesaggio, poiché qui il Rodano scorre attraverso uno stretto tra due catene montuose.  Il sito, scoperto negli anni ‘60 e chiamato Grotta di Mandrin in onore di Louis Mandrin, è stato un luogo prezioso per oltre 100.000 anni. I manufatti in pietra e le ossa di animali lasciati dagli antichi cacciatori-raccoglitori del Paleolitico furono rapidamente ricoperti dalla polvere glaciale che soffiava da nord sui famosi venti di maestrale, mantenendo i resti ben conservati. Dal 1990, un team di ricerca ha studiato attentamente i 3 metri più alti di sedimento sul pavimento della grotta. Basandosi su manufatti e fossili di denti, hanno scoperto che Mandrin riscrive la storia di quando gli esseri umani moderni si sono fatti strada per la prima volta in Europa. 

A parte un possibile impulso sporadico registrato in Grecia durante il Pleistocene medio, i primi insediamenti di esseri umani moderni in Europa sono stati limitati da circa 45.000 a 43.000 anni fa. I ricercatori generalmente concordano sul fatto che tra 300.000 e 40.000 anni fa, i Neanderthal e i loro antenati occuparono l’Europa. Di tanto in tanto, durante quel periodo, hanno avuto contatti con gli esseri umani moderni nel Levante e in alcune parti dell’Asia. Poi, tra 48.000 e 45.000 anni fa, gli umani moderni - essenzialmente noi - si espansero in tutto il resto del mondo e i Neanderthal e tutti gli altri umani arcaici scomparvero. Gli archeologi hanno trovato prove fossili in diversi strati del sito. Più in basso scavavano, più indietro nel tempo potevano vedere. Gli strati più bassi mostravano i resti dei Neanderthal che occuparono l’area per circa 20.000 anni. Ma con loro completa sorpresa, il team ha trovato il dente di un bambino di Homo sapiens in uno strato risalente a circa 56.000 anni fa, insieme ad alcuni strumenti di pietra realizzati in un modo che non era associato ai Neanderthal. L’evidenza suggerisce che questo primo gruppo di umani visse nel sito per un periodo relativamente breve, forse circa 2.000 anni dopo che il sito non era più occupato. I Neanderthal tornano quindi, occupando il sito per diverse migliaia di anni, fino a quando gli umani moderni ritornano circa 44.000 anni fa. 

La scoperta curiosa, emersa durante il primo decennio di scavi della Grotta di Mandrin, sono stati 1.500 minuscole schegge triangolari di pietra identificati in quello che è stato etichettato come Strato E. Alcune lunghe meno di 1 centimetro, tali schegge assomigliano a punte di freccia. Non hanno corrispondenti, a livello di esecuzione tecnica, né precursori né successori in nessuno degli 11 strati archeologici circostanti di manufatti dei Neanderthal nella grotta. Strumenti realizzati allo stesso modo erano stati trovati in pochi altri siti nella valle del Rodano e anche in Libano, ma fino ad ora gli scienziati non erano sicuri di quale specie umana li avesse prodotti. Rappresentano, dunque, un unicum rispetto a tutti i manufatti musteriani di Mandrin. In base alle loro caratteristiche distintive è stata data loro un’attribuzione culturale unica, la “Neroniana”, dal sito della Grotta de Néron, dove furono rivenuti la prima volta. 

Chi li ha fatti? Anche una manciata di altri siti nella media valle del Rodano contengono questi piccoli frammenti. Senza appigli per un confronto diretto, , archeologa presso l’Università di Aix-Marseille e ricercatore affiliato in Antropologia dell’Università del Connecticut, ha cercato in una regione in cui gli esseri umani moderni vivevano stabilmente 54.000 anni fa: il Mediterraneo orientale. In particolare, il sito di Ksar Akil vicino a Beirut, che conserva quella che potrebbe essere la documentazione paleolitica più lunga e ricca di tutta l’Eurasia. Le analisi dei manufatti in pietra di Ksar Akil mostrano uno strato di sedimenti di età simile con minuscole schegge della stessa dimensione e realizzate secondo le stesse tradizioni tecniche di quelli di Mandrin. Questa somiglianza suggerisce che i manufatti neroniani non sono stati realizzati dai Neanderthal, ma da un gruppo di esploratori umani moderni che entrarono nella regione molto prima di quanto gli scienziati si aspettassero. 

L’ultimo pezzo del puzzle è arrivato nel 2018, quando , paleoantropologo dell’Università di Bordeaux, ha analizzato i denti di nove ominidi, trovati nei diversi strati durante gli scavi. Attraverso le scansioni TC e confrontandoli con centinaia di altri fossili, gli scienziati sono stati in grado di determinare che il dente dello strato E di Mandrin, un singolo dente da latte di un bambino di età compresa tra 2 e 6 anni, proveniva da un essere umano della prima età moderna e non da un Neanderthal. Sulla base delle tecnologie delle punte di pietra e dei loro contesti in altri siti, insieme a queste prove fossili, hanno concluso che i creatori delle punte neroniane a Mandrin erano esseri umani moderni. 

Ma le scoperte di Mandrin non si fermano qui. In tutti gli strati del sito ci sono frammenti delle pareti e del tetto del rifugio che sono caduti e sono stati sepolti, insieme ai fossili e ai manufatti. Quando i Neanderthal e gli esseri umani moderni accendevano fuochi nel sito, il fumo lasciava uno strato di fuliggine su quelle superfici. Quindi la stagione successiva un sottile strato di carbonato di calcio chiamato speleothem lo copriva. Questo ciclo è stato ripetuto più e più volte. I ricercatori hanno scoperto per la prima volta questi frammenti di volte fuligginose nel 2006 e il team ne ha recuperati migliaia, anno dopo anno, in ogni strato archeologico di Mandrin. Un decennio di lavoro ha dimostrato che questi schemi possono essere letti come gli anelli degli alberi per dirci con quale frequenza e durata i gruppi hanno visitato il sito, dimostrando che diversi gruppi umani sono arrivati a Mandrin circa 500 volte in 80.000 anni. Ségolène Vandevelde è stato persino in grado di determinare quanto tempo ha separato l’ultimo fuoco di Neanderthal dal primo fuoco umano moderno nella grotta, dimostrando un’alternanza tra le due razze. Dopo aver occupato Mandrin, ogni anno per circa 40 anni, una o due generazioni di Sapiens scomparve altrettanto rapidamente e misteriosamente come era apparsa. I Neanderthal poi rioccuparono regolarmente Mandrin nei successivi 12.000 anni. 

Come hanno fatto questi umani moderni ad arrivare così presto nell'Europa occidentale? , docente di Antropologia e vicedirettore del Turkana Basin Institute, ha dimostrato che le prove archeologiche dall’Australia indicano che gli esseri umani moderni hanno raggiunto il nostro continente già 65.000 anni fa. Ovviamente avrebbero avuto bisogno di una barca per attraversare l’oceano aperto per arrivarci. Pertanto, non è un’esagerazione supporre che le persone nel Mediterraneo abbiano avuto accesso alle tecnologie nautiche 54.000 anni fa e le abbiano utilizzate per esplorare le coste. Sappiamo dalle posizioni di origine della selce utilizzata per realizzare i manufatti nelle grotta di Mandrin che sia i Neanderthal sia gli umani moderni vagavano ampiamente, per almeno 100 chilometri, in tutte le direzioni intorno al sito. Come hanno fatto gli esseri umani moderni a conoscere tutte queste risorse su un paesaggio così ampio e vario in così poco tempo? Avevano rapporti con i Neanderthal? Avrebbero potuto scambiarsi informazioni o fungere da guide? È stato questo un momento in cui i due gruppi si sono incrociati? Determinare l’entità della sovrapposizione tra gli esseri umani moderni e altri ominidi in Eurasia, come i Neanderthal e i Denisoviani, è fondamentale per comprendere la natura delle loro interazioni e cosa ha portato alla scomparsa degli ominidi arcaici.


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a cura della redazione, 10 febbraio

Rimasti un mistero per oltre un secolo, i cilindri preistorici di gesso della Gran Bretagna, iniziano finalmente a far luce sulla civiltà che costruì il gigantesco cerchio di pietre megalitico. Non si tratta di strumenti musicali. A dimostralo il ritrovamento di un esemplare intatto reso noto solo oggi al pubblico, dopo sette anni dalla sua scoperta. Gli studiosi hanno annunciato, infatti, il ritrovamento di quella che è considerata la più importante opera d’arte preistorica dell’Isola d’oltre Manica. Il prezioso oggetto sarà in mostra al Brirtish Museum di Londra dal 17 febbraio al 17 luglio 2022 in “The World of Stonehenge”. Si tratta di una scultura cilindrica in gesso scoperta nel 2015 in una tomba neolitica vicino al villaggio di Burton Agnes.

Ne esistono solo altri tre esemplari, ma non così ben conservati. Il tamburo di Burton Agnes è scolpito in modo ancora più intricato e riflette le connessioni tra le comunità dello Yorkshire, di Stonehenge, delle Orcadi e dell’Irlanda di 5.000 anni fa. Il cilindro, a forma di tamburo, decorato con elaborati disegni geometrici è stato scoperto durante lo scavo in un sito, dove era previsto lo sviluppo di un impianto di energia rinnovabile. I motivi incisi su di esso devono ancora essere decifrati, ma si pensa abbiano un significato simbolico o religioso.

Sono stati individuati grazie a un’indagine geofisica, che ha rivelato due tumuli, uno circolare e uno quadrato. Nel tumulo circolare gli archeologi hanno scoperto una sepoltura centrale intatta, contenente i resti scheletrici di tre bambini. I due bambini più piccoli si tenevano abbracciati mentre il braccio del maggiore teneva i più piccoli. Il tamburo di gesso fu posto contro la testa del maggiore dei tre. La datazione al radiocarbonio dei resti umani ha stabilito che i bambini morirono tra il 3005 e il 2890 a.C.. Nella tomba sono stati trovati anche uno spillo d'osso levigato e una palla di gesso, reperti che sono stati trovati anche negli scavi di Stonehenge.

È molto simile nel design a tre “tamburi” di gesso portati alla luce a soli 30 chilometri da Burton Agnes, a Folkton nel 1889. Anche loro furono scoperti accanto ai resti di un bambino. Al momento del ritrovamento, i “tamburi2 non potevano essere assolutamente datati, ma la nuova scoperta porta l’età stimata per questi tre cilindri 500 anni indietro rispetto quanto si pensasse prima. Anche questi sono realizzati con gesso estratto localmente e decorati con volti umani stilizzati e motivi geometrici. Sulla loro sommità sono presenti una serie di cerchi concentrici e due di essi hanno come due occhi che denotano schematicamente un volto umano. Il design è simile agli oggetti realizzati nella cultura Beaker e nella prima età del bronzo britannica. Il loro scopo non è noto con certezza, sebbene le dimensioni dei "tamburi" possano essere significative: l’archeologa Anne Teather ha osservato che le loro circonferenze formano divisioni di numeri interi (dieci, nove e otto volte, rispettivamente), un’unità di misura utilizzate nella Gran Bretagna neolitica. 



"I tamburi sembrano essere stati creati in una serie accuratamente graduata di dimensioni, in modo che la circonferenza di ciascun di essi possa essere utilizzata per misurare una proporzione fissa di una lunghezza standard di 3,22 metri. Una corda di questa lunghezza si avvolge esattamente dieci volte attorno alla circonferenza del tamburo più piccolo ed esattamente nove, otto o sette volte attorno a ciascuna sequenza di tamburi più grandi. Studi precedenti hanno dimostrato che multipli della misura standard di 3,22 metri sono stati utilizzati per tracciare i diametri di grandi opere di sterro circolari e dei loro cerchi di pietra e legno a Stonehenge e Durrington Walls. Insieme alle nuove prove dello Yorkshire e del Sussex, ciò indica che uno standard di misurazione preistorico era ampiamente utilizzato nell'antica Gran Bretagna.La disposizione regolare di monumenti rituali grandi e complessi come Stonehenge implica che il cantiere sia stato ispezionato attentamente e che le dimensioni richieste per grandi pietre potrebbero essere trasferite a siti di cava di pietra situati fino a 260 chilometri di distanza. I cilindri di misurazione avrebbero fornito un metodo accurato e altamente portatile per garantire che le pietre estratte fossero della dimensione corretta e per garantire che monumenti di design simile potessero essere costruiti in luoghi ampiamente separati. Il gesso non è il materiale più adatto per la produzione di apparecchiature di misurazione e si pensa che i tamburi possano essere repliche di standard di "lavorazione" originali scolpiti nel legno - tuttavia, il legno non è conservato nella maggior parte dei siti archeologici neolitici e non sono stati trovati strumenti di misurazione in legno utilizzati nella Gran Bretagna preistorica. L'esistenza di questi dispositivi di misura implica una conoscenza avanzata di quella civiltà della geometria e delle proprietà matematiche dei cerchi". The Novium Musem



Tra le ipotesi di Teather, insieme a Andrew Chamberlain e Mike Parker Pearson, si pensa possano essere stati strumenti per misurare le lunghezze utilizzate nella costruzione di monumenti come Stonehenge e il circolo di legno a Durrington Walls. La circonferenza di ciascuno dei tamburi corrisponde a una suddivisione di 10 piedi lunghi neolitici, equivalente a 0,3219 metri.

Secondo la studiosa, però, la simbologia presente fa pensare si tratti di oggetti cerimoniali, sopravvissuti grazie al materiale insolito di cui sono fatti, mentre altri strumenti simili potrebbero essere stati realizzati in legno, più deperibile, e per questo potrebbero essere andati perduti. Simile ai tamburi di Folkton e Burton Agnes, è il tamburo di Lavant, un piccolo oggetto cilindrico in gesso del Neolitico scoperto nel 1993. Non è decorato, tuttavia, ed è possibile che i segni siano stati consumati. Era associato a un frammento di ceramica di Mortlake, il che implica una datazione del Neolitico medio. Attualmente, è conservato al museo The Novium di Chichester. Il Tamburo di Burton Agnes e gli esemplari di Folkton saranno esposti insieme nella nuova mostra del British Museum per cinque mesi.


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Un antico cimitero dell'età della pietra custodisce gli amuleti e le offerte rituali di 110 corpi, guidati da un cavaliere accompagnato nell'Aldilà dal su cavallo senza testa...


a cura della redazione, 9 febbraio

Gli scheletri di un uomo e di un cavallo senza testa, presumibilmente risalenti a 1.400 anni fa, sono stati scoperti in un cimitero nel sud della Germania. Si pensa che l’uomo fosse un vassallo dei re merovingi, che governarono nell’Europa centrale dal 476 al 750 d.C.. Una datazione ancora approssimativa, in attesa di conferme scientifiche, dedotta daIl’aver trovato i corpi di una intera comunità, ben 110 tombe, sepolti nei loro costumi tradizionali secondo l’usanza altomedievale. 

Gli esperti non sono sicuri del motivo per cui il cavallo sia stato decapitato, ma pensano che questo trattamento fosse parte della cerimonia di sepoltura dell’uomo, con il corpo del destriero come bene funerario. Tra le sue altre cose c’erano una spada dritta a doppio taglio conosciuta come “spatha” e una lancia. La testa del cavallo non è stata ancora trovata.  

Data la posizione di Knittlingen in un fertile paesaggio di vecchi insediamenti, le indagini hanno anche rivelato singoli reperti preistorici, dell'età della pietra", spiega l’archeologo Folke Damminger, responsabile della LAD, nel comunicato stampa del Consiglio Regionale di Stoccarda. Oltre a fosse aspecifiche, la planimetria della costruzione neolitica è a palo e si nota un fossato irregolare e arrotondato del diametro di circa 26 metri. I pochi frammenti ceramici che sono stati recuperati in loco indicano un periodo neolitico, intorno al 5000-4500 a.C.. La cosa interessante è che la maggior parte delle tombe di epoca medioevale è stata trovata disposta in file regolari, mentre i membri dell’élite locale sono stati sepolti “fuori sequenza” all’interno di un fossato circolare del diametro di 10 metri. 

Il cimitero medievale, un po’ a ovest del centro di Knittlingen, fu scoperto per la prima volta nel 1920 durante i lavori di costruzione di una linea ferroviaria. L’uomo trovato sepolto accanto al suo cavallo era probabilmente al servizio della dinastia merovingia. “Probabilmente un membro dell’élite locale, molto probabilmente era il capo di una clan composto dalla sua famiglia e dai suoi servi”, spiega Damminger. Gli studiosi ipotizzano che l’elaborata sepoltura dell'uomo sia stata organizzata dal gruppo per riaffermare la sua - e la loro - posizione sociale. “Come se con tale cerimonia si assistesse a una messa in scena dello status del defunto, una sorta di atto propiziatorio per garantire ai successori il continuum di tale benessere”, dice l’archeologo escludendo l’ipotesi del sacrificio rituale. Perché tagliare la testa al cavallo allora? Qualcosa non torna.

Anticamente, la sepoltura con il proprio cavallo oltre ad esprimere la memoria collettiva di un popolo in ossequio al defunto, aveva la valenza di guida verso l’altro mondo. II simbolismo della decollazione, però, associato a tale animale solare implica il risveglio dell’immanifesto e l’abbandono delle pulsioni emozionali legate alla natura animale. Tale connotazione, che fa riferimento a un bagaglio di credenze, erroneamente relegate a meri culti pagani, tramandate nel tempo da miti e leggende, sono state assimilate in una complessa sovrapposizione culturale, che trova una significativa espressione sia nella cultura materiale che in alcune forme rituali. Svariati rinvenimenti archeologici enfatizzano il forte legame con il mondo degli animali in ambito funerario, con particolare riferimento alle sepolture equine acefale. Solo lo studio osteologico in corso potrà determinare se la dissezione, a livello della prima vertebra cervicale, sia un fatto casuale oppure corrisponda a una pratica rituale osservata e studiata in Italia (Collegno e Sacca di Goito, Povegliano Veronese), Germania (Donzdorf) e in Austria (Zeuzleben) in una casistica abbastanza ampia di inumazioni che comprendevano deposizioni, intere o parziali, dei cavalli sacrificati in fosse predisposte accanto a quelle dei loro proprietari. Per quel che se ne ha traccia, tale rito, che si differenzia profondamente da quello nomadico di origine euro-asiatica, caratterizzato invece dall’inumazione nella medesima tomba del cavallo e del cavaliere (in Italia è attestato nella necropoli di Campochiaro nel Molise), nacque nelle aree europee centrali tra III e V secolo e si diffuse successivamente nei territori estesi ad est del Reno fra le popolazioni germaniche che comprendevano Franchi orientali, Alemanni, Longobardi e Turingi. 

Nel luogo il team ha riferito di aver esaminato 110 tombe in totale, alcune delle quali erano semplici sepolture mentre altre utilizzavano bare di legno e camere funerarie più elaborate. In quelle maschili, gli uomini, sono stati sepolti accanto alle loro armi, tra cui punte di freccia, lance, scudi e spade, mentre altri sono stati sepolti con oggetti di lusso, come una donna cui è stata trovata accanto una spilla d’oro. Altri corredi funerari includevano amuleti, bracciali, fibbie per cinture, orecchini, collane di perle e fermagli per abiti, insieme a ciotole di bronzo, pettini, coltelli e vasi di ceramica. Questi ultimi, indipendentemente dal sesso e dall'età del defunto, contenevano ossa di animali e gusci d'uovo.

Secondo gli archeologi, queste sepolture sono notevolmente più sontuose delle loro controparti della fine del VII secolo. A chi appartenevano realmente? La loro peculiarità numerica, incastonate all’interno delle lune neolitiche, la simbologia degli amuleti, la connessione alla ritualità sacrificale del cavallo fanno supporre si trattasse di un gruppo particolare. Dopo aver trasportato i reperti al Rastatt per le analisi, i ricercatori stanno ora studiando i resti del cavallo senza testa e del suo cavaliere, con l’obiettivo di conoscere l’età dell’uomo, il suo stato di salute, la probabile causa della sua morte e forse qualcosa di più sulla sua vera identità.


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Una gigantesca ondata di immigrazione durante l'età del bronzo sostituì la maggior parte della popolazione locale. Ma furono le donne a guidare questo cambiamento…


a cura della redazione, 8 febbraio 

Combinando l’archeologia con lo studio del DNA antico dei resti umani dal sito di Links of Noltland, nella remota isola settentrionale di Westray, un team internazionale di genetisti e archeologi delle Università di Huddersfield e di Edimburgo, hanno dimostrato che le Orcadi hanno subito un’immigrazione su larga scala durante la prima età del bronzo, che ha sostituito gran parte della popolazione locale. I nuovi arrivati furono probabilmente i primi a parlare lingue indoeuropee e portarono antenati genetici derivati in parte da pastori che vivevano nelle steppe a nord del Mar Nero. Una fotografia che, a primo sguardo, rispecchia quello che stava accadendo nel resto della Gran Bretagna e in Europa nel terzo millennio a.C.. 

Eppure, i ricercatori hanno scoperto un’affascinante differenza che rende le Orcadi altamente distintive. In gran parte dell’Europa, l’espansione dei pastori alla vigilia dell’età del bronzo era tipicamente guidata da gruppi locali di uomini. Nelle Orcadi, invece, gli scienziati hanno dimostrato che i nuovi arrivati dell’età del bronzo erano principalmente donne, mentre i lignaggi maschili della popolazione neolitica originaria sopravvissero per almeno altri mille anni, cosa che non si vede da nessun’altra parte. Questi lignaggi neolitici, tuttavia, furono sostituiti durante l’età del ferro e oggi sono incredibilmente rari. Lo studio verrà pubblicato a fine febbraio su PNAS.

Ma perché le Orcadi erano così diverse? Il dottor Graeme Wilson e Hazel Moore della EASE Archaeology sostengono che la risposta potrebbe risiedere nella stabilità a lungo termine e nell’autosufficienza delle fattorie delle Orcadi, rispetto alla recessione a livello europeo, che colpì verso la fine del Neolitico quelle terre. Ciò implica che le Orcadi erano molto meno insulari di quanto si pensasse e che ci fu un lungo periodo di negoziazione tra i maschi indigeni e le nuove arrivate dal sud, nel corso di molte generazioni. “Questo dimostra che l’espansione del terzo millennio a.C. in tutta Europa non è stata un processo monolitico, ma è stato più complessa e varia da luogo a luogo”, spiega in un comunicato il dottor George Foody, uno dei ricercatori principali del progetto dell’Università di Huddersfield. I risultati sono stati sorprendenti sia per gli archeologi che per i genetisti del team, anche se per ragioni diverse: gli archeologi non si aspettavano un’immigrazione su larga scala, mentre i genetisti non prevedevano la sopravvivenza dei lignaggi maschili del Neolitico. 

Il direttore dell’Università del Centro di Ricerca sulla Genomica Evolutiva, il professor Martin Richards, aggiunge nello stesso comunicato: “Questa ricerca mostra quanto dobbiamo ancora imparare su uno degli eventi più importanti della preistoria europea: come sia finito il Neolitico”. La ricerca è stata pubblicata dalla Gazzetta ufficiale della National Academy of Sciences (NAS) ed è intitolata “DNA antico ai confini del mondo: l'immigrazione continentale e la persistenza dei lignaggi maschili neolitici nelle Orcadi dell'età del bronzo”, a cura di Katharina Dulias, George Foody, Pierre Justeau et al. Gli scavi, finanziati dall'Historic Environment Scotland, fanno parte di un programma di borsa di studio del dottorato Leverhulme Trust assegnato al professor Richards e alla dottoressa Maria Pala.


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L’uomo viveva sulla penisola arabica 210.000 anni fa, anche durante i periodi di siccità...

Jebel Fayah, situato a Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti, è uno dei più importanti siti paleolitici in Arabia. Nel 2009 gli scavi hanno rivelato l'occupazione umana risalente a 125.000 anni fa, rendendolo l'allora più antico sito umano conosciuto in Arabia. Nuovi dati archeologici indicano che l'insediamento umano nell'Arabia meridionale si è verificato in una gamma inaspettata di condizioni climatiche e significativamente prima di quanto si pensasse...


a cura della redazione, 7 febbraio

Secondo un comunicato diramato dall’Università di Friburgo, tra i 210.000 e i 120.000 anni fa, il popolo paleolitico occupò ripetutamente Jebel Fayah, un rifugio roccioso nell’Arabia meridionale. Un team internazionale di ricercatori, tra cui Knut Bretzke, dell’Università di Tubinga, Adrian Parker, dell’Università di Oxford Brookes, e Frank Preusser, dell’Università di Friburgo, ha datato le fasi di occupazione della grotta con la luminescenza, che determina quando i grani di quarzo presenti negli strati di sedimenti sono stati esposti per l’ultima volta alla luce del giorno. È stato così possible ricostruire i paleoambienti per i diversi periodi di tempo. I ricercatori hanno determinato che il riparo roccioso fu occupato durante fasi di condizioni climatiche estremamente secche e umide. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.

In precedenza si pensava che i migranti fuori dall’Africa evitassero di viaggiare attraverso l’Arabia durante queste fasi siccitose. Sino ad oggi, infatti, la documentazione archeologica araba aveva supportato la speculazione dell’occupazione umana in quest’area legata a periodi di maggiore piovosità, mentre la siccità avrebbe portato alla contrazione delle popolazioni umane in rifugi come la regione del bacino del Golfo, le montagne del Dhofar e la zona litoranea adiacente, nonché la pianura costiera del Mar Rosso. “Pensiamo che l'interazione unica della flessibilità comportamentale umana, i paesaggi a mosaico dell'Arabia sudorientale e il verificarsi di brevi periodi di condizioni più umide hanno consentito la sopravvivenza di questi primi gruppi umani", spiega nel comunicato  Bretzke.


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Un misterioso ominide di 1,5 milioni di anni fa cambia la storia dell’evoluzione umana.…


a cura della redazione, 3 febbraio

Israele e il Levante sono il ponte terrestre naturale tra l’Africa e l’Eurasia. Qui non erano mai state trovate ossa fossili di ominidi della profonda preistoria. Né, fino a poco tempo fa, erano state trovate prove di utensili arcaici. Ora però, nella rift valley del Giordano, a Ubeidiya, è stata scoperta una vertebra di ominide, decisamente sproporzionata, di almeno 1,5 milioni di anni, associata ad asce di tipo acheuleano relativamente avanzate. Nello stesso luogo sono stati trovati anche strumenti di pietra primitivi, che risalirebbero a 3,3 milioni di anni fa. Questo significa che gli archeologi hanno scoperto una nuova specie, un anello mancante nell'evoluzione umana, e che le migrazioni in Africa avvennero in più ondate, in un lasso di tempo che le separa tra loro dai 200.000 ai 300.000 anni.

Nonostante gli scienziati abbiano stabilito che si tratti dell'osso di un nostro possibile antenato, il reperto risulta estremamente più grande rispetto a quello di un habilis erbaceo (simile a una scimmia) e sicuramente più grande anche degli erectus africani, come quello recuperato in Kenya, anni fa. Quello trovato vicino al Mar di Galilea sarebbe appartenuto a un bambino, ma è talmente “grosso” che gli studiosi ne ipotizzano una possibile statura media in età adulta intorno ai 2 metri. Lo studio su questo fossile di ominide, il più antico in Israele, è stato pubblicato il 2 febbraio scorso su “Scientific Reports” da un team internazionale guidato da Alon Barash, della Facoltà di Medicina Azrieli dell’Università di Bar-Ilan.

Il frammento di scheletro è stato dissotterrato nel 1966, ma solo ora lo si è riconosciuto per quello che è in realtà, cambiando i paradigmi della storia dell’evoluzione umana. L’osso trovato a Ubeidiya, a nord di Israele, dimostrerebbe, per la prima volta, una migrazione a ondate di ominidi arcaici dall’Africa durante il Gelasiano, il periodo più arcaico del Pleistocene. A detta dei paleoantropologi, appartiene a un corpo morfologicamente di tipo bipede e proviene dalla parte bassa della schiena, nota anche come regione lombare. Dopo aver fatto una comparazione delle tre vertebre presacrali inferiori (negli esseri umani moderni, nei Neanderthal, negli Australopitechi, e negli scimpanzé) e dopo aver escluso si trattasse di un animale, gli scienziati hanno stabilito la giovane età dell’ominide in base all’ossificazione. Il soggetto da cui proviene la vertebra non aveva finito di crescere. 

Come lo hanno stabilito? La vertebra preistorica non era completamente ossificata e proveniva da un ominide dall’altezza presunta di un metro e mezzo. Il suo peso complessivo sarebbe stato tra i 45 e i 50 chili. Prendendo a parametro l'ossificazione vertebrale dell'uomo moderno, gli studiosi in un primo momento hanno ipotizzato che il bambino del Pleistocene avesse dai 3 e ai 6 anni quando è morto, perché è a quell'età che termina in genere tale processo delle vertebre umane. Il che si tradurrebbe in dimensioni gigantesche inspiegabili. Secondo gli scienziati, potrebbe trattarsi di un modello di ossificazione ritardata, e in tal caso il bambino, pur restando un soggetto molto “robusto”, avrebbe avuto un’età compresa tra 6 e 12 anni alla morte. Un tentativo di adattare i reperti al paradigma convenzionale per non stravolgere tutto? 

La storia dell’osso, inizia nel 1959, quando un membro del Kibbutz Afikim di nome Izzy Merimsky stava demolendo un terreno in preparazione per l’agricoltura. Improvvisamente l'uomo si accorse che la sua macchina stava portando alla luce ossa, inclusi un teschio e alcuni denti. Non sapevano cosa fossero, perché erano irrimediabilmente fuori dal contesto archeologico. Comunque, Merimsky chiamò le autorità. Gli scavi iniziarono nel 1960 e divenne chiaro che il sito era “profondamente” preistorico. Nel 1966, l’archeologo Moshe Stekelis portò alla luce la vertebra che avrebbe cambiato la storia dell’evoluzione umana. Ma non subito. Per qualche motivo l’osso fu messo in una scatola con la scritta “Homo?” – con il punto interrogativo – e dimenticata lì. Dopo vent’anni, la paleoantropologa dell’Università di Tulsa Miriam Belmaker, che stava lavorando sulla ricostruzione del paleoclima dell’Ubeidiya preistorica, rianalizzò tutti i fossili trovati nel sito, per capire se ci fosse un animale tropicale e se l’area era ghiacciata o no all’epoca. Fu allora che riscoprì quel pezzo di spina dorsale. Bastò uno sguardo perché capisse che non era una scimmia. Da allora iniziò un’incessante studio comparativo su tonnellate di vertebre di antichi ominidi, umani moderni, iene, rinoceronti, leoni, scimmie e altri animali sospetti. “Non era un Australopiteco, non un elefante, non un gorilla e neppure un tritone. Ha caratteristiche distinte. Era un ominide bipede e di corporatura molto robusta”, dice Barash su “Haaretz”. 

Datato 1,5 milioni di anni, l’osso è il secondo fossile arcaico di ominide trovato al di fuori dell’Africa. I più antichi risalgono a 1,8 milioni di anni fa e sono stati rinvenuti a Dmanisi, in Georgia, con uno scarto temporale di circa 300.000 anni, il che dimostra l’esistenza di diverse ondate migratorie mai ipotizzate prima. Una scoperta che rende il nostro "lignaggio" sempre più torbido. Oggi per gli scienziati è palese, infatti, che il bambino arcaico trovato nella Valle del Giordano e l’Homo georgicus di Dmanisi non fossero della stessa specie. Inoltre la cultura degli strumenti di pietra del Georgicus è stata catalogata come di tipo oldowan primitivo, e non acheuleano avanzato. Il che porta gli studiosi a ipotizzare che l’ominide di Ubeidiya provenga da un’ondata migratoria separata rispetto a quelle nel Caucaso. Da dove venisse il piccolo "gigante" resta un mistero.


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Rinvenuti nel parco archeologico di Velia-Paestum i resti del più antico tempio arcaico dedicato alla dea, risalenti alle prime fasi di vita della città fondata intorno al 540 a.C. ...


Parco Archeologico Velia, 1 febbraio 

Scoperti nel parco archeologico di Velia-Paestum i resti del più antico tempio arcaico dedicato ad Athena risalenti alle prime fasi di vita della città fondata intorno al 540 a.C. Da anni si ipotizzava l'esistenza di una struttura sacra antecedente al tempio maggiore dell'Acropoli e gli scavi hanno riportato alla luce resti di muri, realizzati con mattoni crudi e intonacati, di quello che doveva essere un edificio rettangolare lungo quasi 20 metri. Ritrovate anche ceramiche dipinte, vasi con iscrizioni, frammenti metallici di armi e armature e due elmi, uno calcidese e un altro di tipo Negau - di epoca etrusca - in ottimo stato di conservazione. 

Sulla base di precedenti ricerche archeologiche avviate negli anni ’20 del secolo scorso, e proseguite con discontinuità fino agli anni ’90, si ipotizzava, anche se con forti dubbi, l’esistenza di una struttura sacra arcaica antecedente al tempio maggiore dell’Acropoli di Velia. In particolare si pensava ad una sua collocazione sul terrazzo più elevato della punta occidentale dell’Acropoli. I recenti scavi non solo hanno confermato l’esistenza di un edificio sacro ma ne hanno anche precisato la collocazione, la planimetria, la cronologia e il rapporto con le strutture più recenti. 

Gli archeologi del Parco hanno, infatti, riportato alla luce resti di muri realizzati con mattoni crudi, intonacati e fondati su zoccolature in blocchi accostati in poligonale, una tecnica utilizzata anche per le abitazioni di età arcaica rinvenute lungo le pendici dell’acropoli. Tali testimonianze disegnano un edificio rettangolare lungo almeno 18 metri ed ampio 7. La porzione interna della struttura è pavimentata con un piano in terra battuta e tegole, sul quale, in posizione di crollo, sono stati rinvenuti elementi dell’alzato, ceramiche dipinte, vasi con iscrizioni “IRE”, ovvero “sacro”, e numerosi frammenti metallici pertinenti ad armi e armature. 

Tra questi, due elmi, uno calcidese e un altro di tipo Negau, in ottimo stato di conservazione. “I rinvenimenti archeologici presso l’acropoli di Elea-Velia lasciano ipotizzare una destinazione sacra della struttura“, dichiara il Direttore Generale dei Musei e Direttore Avocante del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Massimo Osanna, nel comunicato stampa. Con tutta probabilità in questo ambiente vennero conservate le reliquie offerte alla dea Athena dopo la battaglia di Alalia, lo scontro navale che vide affrontarsi i profughi greci di Focea e una coalizione di Cartaginesi ed Etruschi, tra il 541 e il 535 a.C. circa, al largo del mar Tirreno, tra la Corsica e la Sardegna. Liberati dalla terra solo qualche giorno fa, i due elmi devono ancora essere ripuliti in laboratorio e studiati. 

Al loro interno potrebbero esserci iscrizioni, cosa abbastanza frequente nelle armature antiche, e queste potrebbero aiutare a ricostruire con precisione la loro storia, chissà forse anche l’identità dei guerrieri che li hanno indossati. Certo si tratta di prime considerazioni che già così chiariscono molti particolari inediti di quella storia eleatica accaduta più di 2500 anni fa. Gli scavi hanno anche chiarito la cronologia del principale tempio della città dedicato alla dea Athena. La costruzione del tempio maggiore, almeno di una sua prima fase, deve collocarsi cronologicamente dopo la struttura sacra riportata alla luce in questi ultimi mesi. In seguito, in età ellenistica, l’intero complesso riceverà una completa risistemazione con la realizzazione di una stoà monumentale che cingerà il tempio maggiore e il piano di uso si eleverà a coprire tutte le fasi precedenti.

La struttura del tempio più antico risale al 540-530 a.C., ovvero proprio gli anni subito successivi alla battaglia di Alaliafa notare Osannamentre il tempio più recente, che si credeva di età ellenistica, risale in prima battuta al 480-450 a. C., per poi subire una ristrutturazione nel IV sec. a C. È possibile quindi che i Focei in fuga da Alalia l’abbiano innalzato subito dopo il loro arrivo, com’era loro abitudine, dopo aver acquistato dagli abitanti del posto la terra necessaria per stabilirsi e riprendere i floridi commerci per i quali erano famosi. E alle reliquie da offrire alla loro dea per propiziarne la benevolenza, aggiunsero le armi strappate ai nemici in quell’epico scontro in mare che di fatto aveva cambiato gli equilibri di forza nel Mediterraneo.”

Il lavoro, grazie ad un’ampia squadra di professionisti e collaboratori, dà risposta a questioni aperte da oltre settant’anni, su cui si sono espressi nel corso del tempo numerosi eminenti studiosi. I risultati hanno chiarito topografia, architettura, destinazione d’uso e cronologia delle varie fasi dell’Acropoli, dall’età del Bronzo al periodo ellenistico. – dichiara l’archeologo del Parco, Francesco Uliano Scelza nello stesso comunicatoAdesso si lavora ad ulteriori progetti che la presente ricerca ha ispirato, di fruizione, studio e valorizzazione. Tra questi, la rimodulazione dell’Acropoli, da rendere visibile e visitabile in ogni sua parte e la rielaborazione dei luoghi espositivi della Cappella Palatinae e della chiesa di Santa Maria, in modo da rendere ancora più attraente il già suggestivo paesaggio di Velia”. In considerazione dei risultati importanti delle ricerche saranno programmate dal Parco nuove indagini per ricostruire la storia della colonia greca.


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La prima forma standardizzata di produzione di gioielli conosciuta dall'archeologia risale a 50.000 anni fa....


The Guardian,  20 gennaio 

Gli scienziati hanno scoperto una rete di connessioni fiorita 50.000 anni fa, estesa per migliaia di chilometri in tutta l’Africa. Il più antico “social network” del mondo. Non nell’accezione moderna del termine ovviamente. A differenza dell’equivalente digitale, questa rete di legami sociali si basava sulla condivisione e sul commercio di perline fatte di gusci d’uovo di struzzo, una delle più antiche forme di ornamento personale dell’umanità. Potremmo definirla la prima tecnica standardizzata per la produzione di gioielli conosciuta dall’archeologia.

Un recente studio, pubblicato su Nature il 20 dicembre scorso, ha confrontato le perle trovate in 31 siti nell’Africa meridionale e orientale, che si estendono per oltre 1.800 miglia. La ricerca ha coinvolto lo studio di oltre 1.500 di queste perle. Confrontando il diametro esterno e lo spessore delle pareti del guscio, oltre al diametro dei fori al loro interno, gli scienziati hanno appreso che circa 50.000 anni fa le persone nell'Africa orientale e meridionale iniziarono a produrre perline di struzzo quasi identiche. Eppure questi gruppi e comunità erano separati da grandi distanze, il che suggerisce l’esistenza di una rete sociale a lunga distanza che si estendeva per migliaia di miglia, collegando persone in regioni lontane. 

Invece di fare affidamento sulla dimensione o sulla forma naturale di un oggetto, gli esseri umani hanno iniziato a modellare direttamente i gusci e a creare opportunità per lo sviluppo di variazioni di stile. I modelli risultanti hanno fornito ai ricercatori un percorso attraverso il quale poter tracciare connessioni culturali, anche se non è chiaro se le perle di guscio d'uovo di struzzo fossero state scambiate tra gruppi o se fosse stata scambiata la conoscenza su come fabbricarle. La maggior parte delle prove punta a quest'ultima ipotesi.

Eppure questi gruppi e comunità erano separati da grandi distanze, il che suggerisce l’esistenza di una rete di connessione sociale a lunga distanza che si estendeva per migliaia di miglia, collegando persone in regioni lontane. “Le perline sono indizi, sparsi nel tempo e nello spazio, che aspettano solo di essere notati. È come seguire una scia di briciole di pane”, ha affermato l'autrice principale dello studio, Jennifer Miller, del Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena, in Germania. 

Le perle di guscio d'uovo di struzzo sono alcune delle più antiche forme di auto-decorazione trovate nella documentazione archeologica. Gli scienziati ritengono che uomini e donne abbiano iniziato a indossarle 75.000 anni fa. Tuttavia, l’industria dell’ornamento decollò solo 25.000 anni dopo in Africa. 

Improvvisamente, però, circa 33.000 anni fa il modello industriale è cambiato bruscamente. Pur continuando nell’Africa orientale, sono praticamente scomparse dall’Africa meridionale e non sono riemerse lì fino a 19.000 anni fa.


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Viali funerari di 4.500 anni fa sono stati identificati nell'Arabia Saudita nordoccidentale. I viali corrono lungo migliaia di tombe di pietra a forma di ciondolo e coprono circa 600 chilometri...


a cura della redazione, 17 gennaio 

I ricercatori della Royal Commission for AlUla in collaborazione con l’Università dell’Australia occidentale hanno scoperto una rete di strade lunga 170 chilometri in Arabia Saudita, che risalirebbe ad almeno 4.500 anni fa. I viali, che si ipotizza possano essere stati utilizzati per processioni rituali, sono fiancheggiati da antiche tombe a forma di ciondolo, che sembrano avere delle “code”, e  da tumuli ad anello circondati da un muro alto fino a due metri. L’indagine archeologica ad ampio raggio è stata condotta nell’ultimo anno, utilizzando immagini satellitari, fotografie aeree, rilievi del suolo e scavi per individuare i reperti. 

Dai risultati pubblicati sulla rivista The Holocene a dicembre, risulta che i “viali funebri” si estendono su grandi distanze nelle contee arabe nord-occidentali di Khaybar e Al-‘Ula, una vasta area che comprende 22.561 chilometri quadrati e contiene numerosi resti archeologici risalenti a migliaia di anni fa. Una zona dove, secondo Live Science, con l’ausilio di Google è stato identificato un numero presunto di tombe pari a 1 milione. Il team ha potuto per ora verificarne l’esistenza di circa 18.000 lungo i viali funerari, ma solo 80 di queste al momento  sono state campionate o scavate per la ricerca. 

Utilizzando la datazione al radiocarbonio, i ricercatori hanno determinato che un gruppo concentrato di campioni risaliva tra il 2600 e il 2000 a.C., sebbene le tombe sembra siano state riutilizzate fino a circa 1.000 anni fa. Intorno ad al ‘Ayn e al Wadi brevi tratti di viali sono interamente asfaltati e disseminati di una caratteristica roccia rossa, là dove dal pavimento dell’oasi si sale sugli altipiani circostanti dei campi di lava. Entrambi i tratti sono associati a pendenti particolarmente grandi. La stragrande maggioranza dei "ciondoli" lungo i viali funerari sono orientati perpendicolarmente al percorso, indipendentemente dal suo orientamento. Raramente, e senza alcuna relazione distinguibile con le loro dimensioni o la morfologia, sono orientati obliquamente. La posizione della coda dei tumuli rispetto ai viali, inoltre, suggerisce una loro funzione di guida, come una cometa, verso il monumento funerario, con una distanza media l’uno dall’altro tra i 4 e i 10 metri.

Le caratteristiche più sorprendenti di questi viali funerari sono i loro collegamenti a e tra sorgenti d’acqua perenni e il notevole numero di monumenti funebri costruiti attorno a molte oasi, in particolare quelle ai margini dell’Harrat Khaybar. Intervistato dalla CNN, Mat Dalton, autore principale dell’articolo, ritiene che “la rete di viali avrebbe facilitato i viaggi a lunga distanza e seguendo queste reti, le persone avrebbero potuto percorrere una distanza di almeno 530 chilometri da nord a sud”. Ci sono accenni di tali strade nell’Arabia Saudita meridionale e nello Yemen. 

Gli archeologi non sanno molto dei rituali legati a questi luoghi. I resti umani all’interno delle tombe sono stati trovati in cattive condizioni e alcune tombe sono state derubate, lasciandole prive di manufatti. Il ricercatore Eid Al-Yahya intervistato da Arab News, ha sottolineato però che ne esistono più di 100 modelli diversi a  Khaybar, conosciuto anche come Harat Al-Nar, ognuno con una forma architettonica distintiva, dove furono sepolti singoli individui o piccoli gruppi, con i corpi deposti in una posizione fetale. Poiché simili  monumenti non potevano essere aggiunti o allungati una volta che la coda e la testa dei “ciondoli” erano state costruite, i ricercatori ritengono siano stati progettati con un disegno ben preciso, pensando a una dimensione e una forma finali. Inoltre, i pendenti dello stesso tipo mostrano spesso raggruppamenti distintivi. Comunemente, coppie di dimensioni simili si fronteggiano lungo un viale, come gemelli orientati in parallelo, creando una sorta di “portale” visivamente impressionante.

“Queste tombe - spiega - simboleggiano le costruzioni fatte da persone che vivevano in prosperità, non in un deserto arido, e puntano verso il cielo, testimoniando una civiltà che aveva un’antica tradizione celeste”. Più o meno nello stesso periodo in cui furono costruite le tombe e i viali di Khaybar, gli antichi Egizi avrebbero costruito le loro piramidi, sempre che quelle della Piana di Giza non siano più antiche. In Arabia Saudita sono state trovate grandi strutture in pietra che risalgono a migliaia di anni prima e che non sembra abbiano ricevuto linfluenza neppure delle civiltà fiorenti in Mesopotamia, a nord dell’Arabia, dove troviamo grandi città e templi a forma di piramide, conosciuti come ziggurat.  Le strutture a forma di cancello chiamate mustatil furono costruite, infatti, 7.000 anni fa e potrebbero essere state utilizzate per un culto preistorico.


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Misterioso tumulo regale nel nord della Tuva. Gli archeologi scoprono i resti di una donna ornata con un raro pettorale d’oro a forma di mezzaluna...


Nauka W Polsce, 14 gennaio

Nel nord della Tuva, una repubblica autonoma nella parte asiatica della Federazione Russa, si estende quella che gli archeologi chiamano la “Valle dei Re siberiana” per le numerose, enormi tombe a tumulo, con ricchi arredi, risalenti a oltre 2.500 anni fa. Qui una spedizione russo-polacca, guidata dal dottor Łukasz Oleszczak dell’Università Jagellonica di Cracovia, ha scoperto i resti di una donna ornata con un raro pettorale d’oro a forma di mezzaluna. Il tumulo dove è stato rinvenuto il corpo si trova a Chinge-Tey, nella valle Turano-Ujukska. Il suo corredo funerario comprendeva anche orecchini d’oro, un coltello di ferro e un pettine di legno inciso collegato da un anello di cuoio a uno specchio di bronzo. 

Si pensa che la sepoltura risalga al VI secolo a.C., quando la valle fu occupata dalla cultura nomade degli Sciti Alda-Bielsko. Allora, la valle del Turano-Ujuk era uno dei centri rituali più importanti dell’intero mondo scita-siberiano. È da qui, dalle montagne della Siberia meridionale, che proviene questo misterioso popolo che dominò le steppe dell’Europa orientale. Molto di quello che sappiamo di questa gente dagli occhi cerulei e dai capelli color fuoco ce lo ha tramandato Erodoto. Insediatisi lungo la costa settentrionale del Mar Nero, gli Sciti vengono descritti come abili domatori di cavalli e arcieri formidabili, legati a inquietanti tradizioni, come bere il sangue del proprio avversario abbattuto in battaglia.

LO SAPEVI CHE: Tamara Rice, in “Gli Sciti” (Il Saggiatore, 1958) afferma che presso questo popolo fosse diffuso il culto della Grande Dea, già adorata nella Russia meridionale prima del loro avvento, raffigurata in numerosi reperti rinvenuti nei corredi funebri talvolta con il corpo metà umano e metà di serpente, spesso circondata dai suoi animali sacri, il cane e il corvo. Con uno scettro o uno stendardo, figurava quale protettrice del capotribù e nume tutelare dei giuramenti, oppure al centro di un rituale di iniziazione. È stato ipotizzato che le principesse e le spose dei sovrani sciti fossero inoltre le sacerdotesse della Grande Dea e che, in occasione dei riti, indossassero abiti particolari, gli stessi che le avrebbero accompagnate nell’oltretomba.

Erodoto attesta una straordinaria fascinazione negli Sciti per l’oro, metallo di valenza magica e fondamento del potere, in quanto ponte tra l’umano e il divino. Per questo popolo il re era il custode dell’oro sacro. Un altro elemento fondamentale della vita di questi nomadi era il cavallo: compagno in vita e nell’oltretomba. Dal suo latte ricavavano una bevanda particolare: il kumys. C'è chi sostiene appartenessero a un gruppo indoeuropeo di ceppo iranico e chi invece ne identifica le origini nei popoli ugro-altaici. Alcuni ricercatori ritengono, infatti, che discendessero dalla cultura Srubnaya, la così detta civiltà delle tombe di legno, vissuta durante l'età del bronzo tra il Volga e il nord del Mar Nero; altri invece pensano che gli Sciti provenissero dall'Asia centrale o addirittura dalla Siberia e che poi, nel corso delle loro migrazioni, abbiano finito per fondersi con le popolazioni preesistenti nella zona.

Il tumulo, danneggiato al punto da essere quasi livellato, è stato rilevato solo grazie alla scansione laser aerea, che ha individuato la struttura circolare di oltre 25 metri di diametro. Scavando gli archeologi hanno scoperto al suo centro una camera funeraria in legno. Era stata costruita su una struttura di assi di legno a incastro, sormontata da tre strati di travi per formare una volta. 

All’interno c’erano gli scheletri della donna, di circa 50 anni, e di un bambino di due o tre anni. Gli studiosi stanno ancora analizzando gli ornamenti organici rinvenuti in situ, che ricordano le usanze scite di indossare strumenti e vesti fatti gli scalpi dei loro nemici, in particolare scettri rivestiti con spirali di pelle umana a forma di serpente. “Un monumento particolarmente interessante, come il pettorale d'oro, un ornamento a forma di mezzaluna o lunare appeso al collo” - osserva Oleszczakel nel comunicato stampa, sottolineando che tali oggetti, presenti nei tumuli funerari nella Siberia meridionale, sono stati trovati, finora, quasi esclusivamente in tombe di uomini e sono considerati un simbolo di appartenenza a qualche gruppo sociale, una casta, forse sacerdotale. “Metterlo nella tomba di una donna è un allontanamento molto interessante da questa usanza. Dimostra certamente il ruolo unico della defunta nella comunità degli abitanti della Valle dei Re”, spiega l’archeologo. 

La donna è stata sepolta nella parte centrale della tomba situata nelle immediate vicinanze di un altro grande tumulo appartenente – come ritengono gli studiosi – al principe dei nomadi. Nel 2021, gli archeologi polacchi hanno continuato le loro ricerche, i cui scavi erano iniziati due anni prima. Poi trovarono due sepolture: quella centrale, derubata, e quella laterale, che era intatta e conteneva il corpo di un giovane guerriero. Si tratta di una delle 10 tombe poste in fila sull’asse nord-sud nella parte occidentale della necropoli. Durante l’ultima stagione di scavi è stata scoperta anche una seconda tomba, che si trova all’esterno della trincea che circonda il tumulo. Era lo scheletro di un adolescente, posto in una piccola fossa con una staccionata di pietra. Era stato spogliato di qualsiasi attrezzatura. 

Le sepolture di bambini attorno al perimetro dei tumuli o appena fuori dal fossato che circonda la tomba sono un elemento permanente del rito funebre di questa prima cultura scitadice Oleszczak. Gli archeologi hanno trovato prove che attorno al perimetro del tumulo era stato depositato un tesoro di oggetti in bronzo, andato disperso a causa dei lavori agricoli effettuati nella zona durante il XX secolo. Ciò è dimostrato dal ritrovamento di diverse dozzine di parti di una fila di cavalli, un'ascia di bronzo, probabilmente utilizzata per gli scalpi che questo popolo era solito fare dei propri nemici, e un ornamento a forma di capra, emblema della loro cultura zoomorfa. La loro rilevazione è stata possibile grazie all’utilizzo di un metal detector. Gli scavi, ancora in corso, sono stati condotti in collaborazione con gli scienziati del Museo statale dell'Ermitage di San Pietroburgo, sotto la direzione di Konstantin V. Chugunov, grazie ai fondi del National Science Center.


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Una missione tedesco-egiziana ha portato alla luce una collezione di enormi pezzi di calcare appartenenti a una coppia di sfingi reali, nonché i resti di pareti e colonne decorate con scene festive e rituali a Luxor...


Ahram Online, 13 gennaio 

Una coppia di sfingi calcaree e pezzi di pareti e colonne decorate con scene festive e rituali, sono stati portati alla luce nel tempio di Amenhotep III di Luxor da un team di ricercatori tedesco-egiziani guidati dall'archeologo Hourig Sourouzian. Mostafa Waziri, segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità ha detto che le colossali sfingi, che misuravano circa 8 metri di lunghezza, sono state trovate semi sommerse nell’acqua, sul retro dell’ingresso del terzo pilone, poste presumibilmente all’inizio del percorso processionale che porta alla Corte del Peristilio. Le loro teste raffigurano Amenhotep III che indossa il copricapo a strisce di nemes, la barba reale e un ampio colletto intorno al collo. 

La pulizia del calcare ha rivelato l’iscrizione “l’amato di Amon-Ra" su uno dei pettorali. Le basi delle colonne e i blocchi di fondazione trovati nella parte meridionale della sala ipostila del tempio indicano che la struttura era più grande e aveva più colonne di quanto si pensasse in precedenza, mentre le decorazioni murali in arenaria mostrano immagini della festa giubilare di Heb-sed di Amenhotep III. Basi di colonne e blocchi di fondazione nella metà meridionale della sala ipostila mostrano che questa sala era molto più grande di quanto si pensasse e con più colonne. La missione ha anche scoperto tre busti e tre parti inferiori di statue della dea leonessa Sekhmet in granodiorite sulla facciata della Corte Peristilio e nella Sala ipostila del tempio. Questi pezzi verranno riassemblati con altri trovati in precedenza nel sito e saranno esposti nel tempio.


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Un team di archeologi ha identificato una serie di strutture rituali in precedenza sconosciute nel Parco Nazionale di Machu Picchu, in Perù


Journal of Archaeological Science, gennaio 2022

Un team di archeologi dell'Università di Varsavia ha identificato una serie di strutture in precedenza sconosciute nel Parco Nazionale di Machu Picchu, in Perù. Una scoperta resa possibile dall’uso di droni, sopra la volta della foresta, dotati di Light Detection and Ranging (LiDAR), una tecnologia che permette di ricreare una rappresentazione digitale 3D delle strutture anticamente edificate dall’uomo, nascoste sotto la vegetazione, grazie alla variazione dei tempi di riverbero delle lunghezze d'onda del laser. Lo studio, pubblicato sul numero di gennnaio 2022 del “Journal of Archaeological Science”, si è concentrato sul complesso Inca di Chachabamba, un centro cerimoniale associato all'acqua che comprende diversi santuari e bagni legati a tale elemento animico. Analizzando i dati LiDAR, sono emerse 12 piccole strutture erette su pianta circolare e rettangolare alla periferia del complesso. Secondo Dominika Sieczkowska del Centro di ricerca andina dell'Università di Varsavia, ci sono indicazioni che siano state principalmente le donne a prendersi cura del complesso, come suggerito da oggetti scoperti durante precedenti scavi dal team polacco-peruviano. Gli studi effettuati hanno anche rilevato canali precedentemente sconosciuti che fornivano a Chachabamba l'acqua del vicino fiume Urubamba attraverso un sistema di blocchi di pietra parzialmente sotterranei.


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