a cura della redazione, 13 giugno 

Mentre completava gli scavi sul lato occidentale del museo all'aperto presso l'obelisco del re Senusret I, a Mataria, una missione archeologica congiunta egiziano-tedesca, è riuscita a scoprire nel Tempio del Sole blocchi di pietra granitica dell'epoca del re Cheope, secondo faraone della IV dinastia nella prima metà del periodo dell'Antico Regno (XXVI secolo a.C.), oltre alle fondamenta del cortile di un tempio che risale all'epoca del Nuovo Regno, e una serie di statue e altari. 

La missione stava scavando nell'antica città di Heliopoli, un importante centro religioso. Gli archeologi hanno scoperto grandi blocchi di granito nelle rovine del Tempio del Sole, che rappresentano la prima scoperta del periodo del faraone Cheope nella regione di Ain Shams. Mustafa Waziri, Segretario Generale del Consiglio Supremo per l'Archeologia, ha annunciato la scoperta in un comunicato stampa, suggerendo che la pietra potrebbe aver fatto parte di un edificio un tempo situato presso le Piramidi di Giza e successivamente spostato e riproposto tra la XIX e la XX dinastia. Sarebbe stato usato come materiale da costruzione nell'era Ramesside, un periodo in cui erano comuni le pietre di edifici storicamente più antichi. 

Ayman Ashmawy, responsabile della divisione delle Antichità Egizie presso il Consiglio Supremo e capo della missione da parte egiziana, ha aggiunto che sono state rivelare alcune prove dell'esistenza precoce di quest'area, poiché molti strati archeologici risalgono all'epoca della dinastia Zero (periodo Naqada). 

Sono stati recuperati anche diversi strati di macerie ceramiche, che indicano l'attività religiosa e rituale nel III millennio a.C. nel sito, e testimonianze che indicano una grande presenza durante l'epoca della III e IV dinastia, come un pezzo di granito appartenuto al re Pepi I (2280 a.C.). Su di esso c'è un'iscrizione prominente del falco di Horus. È stata anche rivelata la base di una statua del re Amazis, o Ahmose II, parti delle statue a forma di sfingi, che sono considerate prove dell'uso e della presenza reale nel tempio, oltre a tracce di un certo numero di faraoni, tra cui i re Amenemhat II, Senusret III, Amenemhat III, Amenemhat V, Thutmose III, Amenhotep II e III, Horemheb, Ramses II e re Seti II. 

Dietrich Rau, capo della missione da parte tedesca, ha spiegato che la missione è riuscita anche a scoprire parti dei sarcofagi e degli altari dell'era dei re Amenemhat IV, Sobekhotep IV, Ay, Seti I, Osorkon I, Takelot I e Psamtik I, oltre a rivelare un modello scultoreo in quarzo a forma di "Sfinge" del re Amenhotep II, e la base di un'enorme statua di scimmia di granito rosa di un babbuino. 


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a cura della redazione 3 giugno

Una spada vichinga scoperta dai metal detector in Norvegia sta rivelando nuove intuizioni sui viaggi nel Mare del Nord. Sebbene la lama sia mancante, e sia difficile vederne a occhio nudo tutti i particolari, le decorazioni dell'impugnatura hanno dettagli unici in oro e argento, con elementi tipici dello stile vichingo, tra il 550 e il 1050 d.C. L'elsa, che ha estremità progettate con teste di animale, contiene anche figure geometriche in argento, realizzate con la cosiddetta tecnica del niello, utilizzando un impasto metallico per sovrapporre strisce nere nell'argento. La tecnica con cui è stata fabbricata, secondo gli studiosi, è di altissima qualità: la complicata decorazione, la  cesellatura, nonché lo speciale design della guardia crociata, rendono questa scoperta assolutamente unica.

La spada è stata trovata in tre pezzi nell'area di Jatta a Stavanger, rinomata per la tomba della "Regina Gausel" scoperta per la prima volta nel 1883. Considerata tra le più ricche sepolture femminili dell'era vichinga, conteneva fermagli in argento e bronzo, bracciali, un anello, perle, suppellettili, attrezzature e parti di un reliquiario. L'intero manico della spada è decorato con bronzo dorato e argento, il che lo rende molto simile alle spade di tipo D di Jan Petersen. In Norvegia si conoscono circa 15-20 spade di questo tipo esclusivo, su un totale di circa 3000 reperti, e si presume siano state importate dal continente o dalle isole Britanniche. Per quanto ne sappiano gli studiosi, nessun'altra spada di tipo D, né altre spade del periodo vichingo, hanno un simile tipo di testa di animale attaccata all'elsa. 

La prima parte della spada è stata trovata nel 2021. Era una testa di animale finemente decorata in bronzo dorato. Allora non fu possibile dire a quale tipo di oggetto appartenesse. Nella primavera del 2022 sono state ritrovate altre due parti appartenenti allo stesso oggetto. La parte più grande somigliava al pezzo centrale dell'impugnatura di una spada. L'elmo inferiore era decorato allo stesso modo dell'impugnatura e ad ogni estremità della guardia c'era la forma di una testa di animale. Lo stile della decorazione potrebbe indicare che la spada sia stata originariamente realizzata nell'impero dei Franchi o in Inghilterra. Il parallelo più vicino che conosciamo è una spada dell'isola di Eigg in Scozia, che è stata trovata in una tomba del IX secolo d.C. 

Con una simile impugnatura la spada non sarebbe stata molto funzionale, in quanto le decorazioni sarebbero state danneggiate durante la battaglia. A chi apparteneva e che uso se ne faceva? Come spiega l'archeologa ed esperta di epoca vichinga presso il Museo Archeologico, Zanette Glørstad, nel comunicato dell'Università di Stavanger, si pensa fosse il simbolo dello status sociale elevato di un uomo di alto rango: un capo che la utilizzava a scopo cerimoniale.

Esempi di questo tipo di spada sono stati trovati sia nell'Europa orientale che in quella occidentale, ma pochissimi in Norvegia, suggerendo che la spada fosse probabilmente importata. Sebbene sia possibile che fosse una copia realizzata da fabbri locali altamente qualificati, l'arredamento suggerisce che sia stata forgiata e realizzata in Francia o in Inghilterra durante l'800 d.C.. In precedenza è stato suggerito che l'area di Jatta fosse il punto di partenza per estese alleanze e saccheggi. La sepoltura della spada e della regina Gausel ora suggerisce che l'area fosse un importante snodo per i contatti attraverso il Mare del Nord.


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a cura della redazione 1 giugno

Durante la stagione 2021 del progetto "Conservazione architettonica e finiture decorative di El Palacio" è stata rinvenuta, nella Zona Archeologica di Palenque, Chiapas, una rappresentazione del giovane Dio del Mais. La scoperta è stata annunciata, però, solo ieri, a distanza di un anno, dall'Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH). È il primo ritrovamento sul sito, di una testa stuccata di questa importante divinità del pantheon Maya. La rappresentazione della divinità, di oltre 1.300 anni fa, è stata trovata in un corridoio dell'edificio. La novità più interessante è che la scultura risulta "l'asse" di un rito celebrato in uno stagno artificiale, con un sistema di drenaggio altamente sofisticato, per emulare l'ingresso della divinità negli Inferi, attraverso l'immersione. La vasca presenta due livelli per la seduta e per gli stanti, con una marcata pendenza che va da est a ovest, fino a un piccolo congegno per drenare l'acqua. I ricercatori hanno anche individuato dietro il muro di contenimento un altro foro, che si pensa porti a una stanza di compensazione. Il drenaggio presumibilmente aveva un tappo per lasciare salire l'acqua fino a un certo livello, permettendo di avere uno specchio di approssimativamente 8 centimetri, nel quale era possibile vedere il riflesso dell'Astro lucente, ma anche quello del cosmo.

L'Istituto ha riferito che nel luglio dello scorso anno, l'équipe interdisciplinare che lavora al progetto ha riscontrato un meticoloso allineamento delle pietre, mentre rimuoveva il riempimento da un corridoio che collega le stanze della edificio B di El Palacio con quelle dell'adiacente ediificio F. All'interno di un ricettacolo semiquadrato, formato da tre pareti, e sotto uno strato di terra smossa, sono emersi il naso e la bocca semiaperta della divinità. Man mano che l'esplorazione procedeva, si scoprì che la scultura era al centri di una ricca offerta collocata su una vasca con pavimento e pareti stuccate (larghezza circa un 1 per 3 metri di lunghezza), costruita con cura e sapienza architettonica per emulare l'ingresso del dio agli Inferi, ricreando un ambiente acquatico, simbolo della purificazione e della nascita nuova vita. Questa scoperta ci permette di comprendere come anche gli antichi Maya di Palenque praticassero un rito di passaggio iniziatico di nascita, morte e Resurrezione. Anche la testa stuccata, lunga 45 centimetri, larga 16 centimetri e alta 22 centimetri, aveva un orientamento est-ovest , che simboleggiava la nascita della pianta del mais con i primi raggi del Sole. 

L'archeologo González Cruz e i suoi colleghi, Carlos Varela Scherrer e Wenceslao Urbina Cruz, che hanno partecipato come responsabili degli scavi, hanno spiegato che la scultura, modellata attorno a un supporto in pietra calcarea, ha caratteristiche aggraziate: “Il mento è affilato, pronunciato e diviso; le labbra sono sottili e sporgenti verso l'esterno – quella inferiore leggermente verso il basso – e mostrano gli incisivi superiori. Gli zigomi sono fini e arrotondati, mentre gli occhi sono allungati e sottili. Dalla fronte ampia, lunga, appiattita e rettangolare, nasce un naso largo e pronunciato”. Un altro vestigio, piuttosto significativo, sono i frammenti di una lastra a treppiede su cui è stata collocata la scultura, che in origine era stata concepita come una testa mozzata. Nel 2018, nello stesso edificio fu rinvenuta una maschera più piccola, poco distante dal ritrovamento della testa del giovane Dio del Mais, che riproduce un volto, presumibilmente della stessa divinità, più vecchia, consolidando le ipotesi che si tratti di un luogo dove veniva celebrato un rito di passaggio.

Il gigantesco volto del dio solare era stato posto sotto una coltre di sedimenti rituali, tra cui vegetali, animali ossa di animali (quaglia, tartaruga bianca, pesce bianco e cane domestico), conchiglie, torte di granchio, frammenti di ossa lavorate, pezzi di ceramica, tre frazioni di figurine antropomorfe in miniatura, 120 pezzi di lame di ossidiana, una porzione di perline di pietra verde, due perle di conchiglia, così come semi e piccole lumache. La disposizione di questi elementi era costituita concentricamente e non da strati, coprendo quasi il 75% della cavità, che era sigillata con pietre sciolte. Alcune ossa di animali erano state cotte e altre mostravano segni di carne e impronte di denti. Indizi che hanno portato i ricercatori a ipotizzare che siano state utilizzate per il consumo umano come parte del rituale.

L'INAH ha evidenziato che, per la tipologia ceramica della piastra a treppiede che accompagnava la testa del "giovane Dio del Mais tonsurato", descrizione che allude ai capelli tagliati del numen, che ricordano il mais maturo, il contesto archeologico è databile intorno al periodo tardo classico (700-850 d.C.). Per González Cruz, è probabile che questi rituali notturni abbiano avuto inizio durante il governo di K'inich Janaab' Pakal I (615-683 d.C.), e siano continuati durante quelli di K'an Bahlam II (684-702 d.C.), K'an Joy Chitam II ( 702-711 d.C.) e Ahkal Mo' Nahb' III (721-736 d.C.). Forse sotto il regno di questi ultimi quello spazio fu chiuso in modo simbolico, rompendo una porzione del pavimento in stucco dello stagno e rimuovendo parte del riempimento edilizio, per depositare una serie di elementi rituali. 

Sopra l'offerta fu posta una lastra di calcare con una piccola perforazione – lunga 85 centimetri per 60 centimetri di larghezza e 4 centimetri di spessore - ma non prima di “sacrificare” la piastra del treppiede, che era quasi spezzata della metà e di una porzione, con uno dei suoi sostegni collocato nel foro della lastra. Veniva quindi un letto semicircolare di cocci e piccole anime di pietra, su cui era posta la testa della divinità, che veniva sorretta lateralmente con gli stessi materiali. Infine, l'intero spazio sarebbe stato chiuso con terra e tre muretti , lasciando la testa del giovane dio del mais all'interno di una specie di scatola, dove rimase nascosta per oltre un millennio. L'opera, rinvenuta in un contesto di umidità, è attualmente in fase di graduale essiccazione, per poi dare il via al suo restauro, per il quale sono stati incaricati gli specialisti del Coordinamento Nazionale per la Conservazione dei Beni Culturali dell'INAH.

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I nostri antenati crearono intricate opere alla luce tremolante del fuoco ispirati da pareidolie rituali. La scienza conferma la complessità cognitiva dell'uomo nel Magdaleniano, senza escludere l’ipotesi di riunioni di tipo sciamanico...


a cura della redazione, 20 aprile

E se gli animali disegnati dall’uomo preistorico non fossero rappresentazioni di vita quotidiana? Potrebbero essere stati utilizzati per riprodurre pareidolie sulle pareti delle caverne alla luce del fuoco, con forme e ombre tremolanti? E se sì, a quale scopo? Un recente studio, condotto dai ricercatori delle Università di York e Durham, pubblicato su PLOS ONE, sembrerebbe confermare l'ipotesi secondo cui il caldo bagliore dei focolari li avrebbe resi il fulcro della comunità per incontri sociali, raccontare storie, ritualizzare l'arte, confermando la complessità cognitiva delle persone preistoriche, senza escludere l’ipotesi di riunioni di tipo sciamanico.

Gli studiosi hanno esaminato una collezione di 50 pietre calcaree rinvenute a Montastruc, un rifugio roccioso nel sud della Francia con un contesto archeologico limitato. Note come placchette, e oggi custodite dal British Museum, furono incise dai cacciatori-raccoglitori tra i 23.000 e i 14.000 anni fa, durante la così detta era Magdaleniana, caratterizzata dal fiorire dell’arte primitiva rupestre. La presenza di bruciature rossastre attorno ai loro bordi suggerirebbe che le pietre siano state accuratamente poste in prossimità di un focolare, per proiettare giochi di immagini e coinvolgere i presenti, per narrare storie o evocare entità soprannaturali.

Per confermare la loro scoperta, gli studiosi hanno utilizzato modelli 3D e software di realtà virtuale, ricreando le condizioni di luce accanto al fuoco e l’esperienza visiva degli artisti preistorici. In precedenza si presumeva che il danno da calore visibile su alcune placchette fosse stato causato da un incidente, ma gli esperimenti hanno mostrato che era più coerente con l’aver posizionato di proposito le pietre vicino al fuoco. “Creare arte alla luce del fuoco sarebbe stata un'esperienza molto viscerale, attivando diverse parti del cervello umano. Lavorare in queste condizioni avrebbe avuto un effetto realistico sul modo in cui le persone preistoriche sperimentavano l'atto creativo di tale forma artistica”, spiega nel comunicato ufficiale l’autore principale dello studio, Andy Needham, del Dipartimento di Archeologia dell’Università di York e co-direttore dello York Experimental Archaeology Research Center

Nel Magdaleniano, diversi contesti archeologici dimostrano che placchette decorate venivano utilizzate insieme a blocchi di calcare non decorati come parte del tessuto di un focolare. La presenza di tracce di riscaldamento sulle placchette di Montastruc potrebbe essere stata direttamente correlata alle forme incise, con gli effetti visivi delle placchette riscaldate che aggiungevano una qualità esperienziale all'arte. Il calcare subisce drammatici cambiamenti fisici quando viene riscaldato, esibendo vividi cambiamenti di colore e fratture o rotture termiche a temperature più elevate, che potrebbero essere state proprietà materiali attraenti per gli artisti di Montastruc. 

Il riscaldamento intenzionale e la fratturazione termica delle placchette decorate è stato precedentemente affermato come una caratteristica importante del loro uso, come mezzo per "sacralizzare" le placchette. Infatti, in siti come La Marche e Labastide, le pietre incise appaiono strettamente associate ai focolari, senza un apparente motivo funzionale. Gli effetti drammatici del riscaldamento di oggetti d'arte portatili sono stati riconosciuti in altri contesti del Paleolitico superiore, come le esplosioni di figurine di loess riportate dal sito gravettiano di Dolni Vĕstonice, nella Repubblica Ceca. Inoltre, l'effetto di una sorgente di luce tremolante sulla topografia ondulata del calcare è considerata dagli studiosi come una caratteristica integrante di alcune forme di arte rupestre parietale, aggiungendo dinamismo alle forme animali raffigurate.

“Potrebbe aver attivato una capacità evolutiva, dove la percezione impone un’interpretazione significativa come la forma di un animale, un viso o uno schema dove non ce n’è. Sappiamo che le ombre e la luce tremolanti migliorano la nostra capacità evolutiva di vedere forme e volti in oggetti inanimati e questo potrebbe aiutare a spiegare perché è comune vedere disegni di placchette che hanno utilizzato, o integrato, elementi naturali nella roccia per disegnare animali o forme artistiche”, aggiunge il ricercatore. Secondo lo studio, la realtà virtuale utilizzata per esplorare gli effetti visivi delle pietre, attraverso i modelli 3D delle placchette di Montastruc, suggerisce che sotto una sorgente di luce dinamica a basso lume le forme incise apparivano animate. L'integrazione delle caratteristiche naturali del calcare e l'animazione delle forme raffigurate alla luce del fuoco sarebbe inoltre strettamente legate e parallele alle arti figurative parietali. Un indizio che spinge gli studiosi sempre più a interpretare le rappresentazioni degli artisti magdaleniani come precisi schemi rituali.


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La scoperta mostra che i Maya organizzavano il tempo in modo rituale molto prima di quanto si credesse in precedenza. Tra le illustrazioni dei loro dei e l'origine del mondo, gli archeologi hanno trovato uno dei primi esempi della scrittura di questa civiltà precolombiana...


a cura della redazione, 13 aprile

Gli archeologi hanno trovato il primo esempio di annotazione del calendario Maya su due frammenti di murales, rinvenuti nelle profondità della piramide guatemalteca di San Bartolo, nella giungla di El Petén, tra migliaia di resti di antiche pareti. Una scoperta che dimostra come i Maya organizzassero il tempo in modo rituale molto prima di quanto si pensasse. Su un frammento sono disegnati un punto e una linea orizzontale, mentre tra la sua parte inferiore e il secondo segmento di gesso è ben visibile la testa di un cervo. 

LO SAPEVI CHE - La data dei “7 cervi” era seguita, nel Tzolk'in, da “8 stelle”, “9 giada/acqua”, “10 cani”, “11 scimmie”... Durante il periodo classico, gli scribi Maya usavano solo raramente la testa di cervo come glifo per il settimo giorno. Invece, era molto più comune usare un segno della mano, che mostrava il tocco del pollice e dell'indice. Ciò può essere spiegato dall'uso stabilito del segno della mano in altre impostazioni come il segno fonetico "chi", che indica in Ch'olan il "chij", derivato dal proto-Maya "kehj". Ciò riflette lo status del Ch'olan come lingua e scrittura di prestigio, usata anche tra le comunità nelle pianure Maya. Sino ad ora il primo uso attestato come "il giorno Cervo" era stato registrarto nel primo periodo classico (dal 200 al 500 d.C.). L'uso della testa di cervo a San Bartolo datato tra il 300 e il 200 a.C. circa, invece, potrebbe rappresentare una fase iniziale dello sviluppo della scrittura Maya, prima che la mano del "chi" puramente fonetico emergesse come forma Ch'olan standard del segno.

Segni che alludono, secondo i ricercatori, allo Tzolk'in, il calendario sacro composto da 260 giorni, rappresentati da glifi e numerati da uno a 13 in modo ciclico, che ricordano la durata della gestazione umana. In particolare si tratterebbe di un chiaro riferimento al giorno dei "7 cervi": il popolo Maya, infatti, scriveva il numero sette con due punti in cima a una linea. Secondo gli studiosi manca, però, il pezzo che riporta il secondo punto, ma contano di trovarlo tra i 249 frammenti che hanno sino ad ora attribuito all'antico calendario. I dettagli di questi risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Science Advances.

Scoperto nel 2001, da un gruppo di studiosi, guidato da William Saturno, il luogo si distingue per la sua piramide a gradoni, cui sono state attribuite sette fasi costruttive, poste l'una sull'altra. Durante ogni nuova fase le mura coprivano completamente quelle precedenti, includendole all'interno delle fondamenta. 

Gli scavi archeologici nel sito Maya hanno rivelato una serie di importanti dipinti murali risalenti al periodo tardo preclassico (dal 400 a.C. al 200 d.C.). Questi provenivano da un unico complesso architettonico, chiamato Las Pinturas per i colori vivaci utilizzati negli affreschi. Il luogo era associato alle osservazioni astronomiche Maya e alla scienza del calendario, cui afferiscono diverse strutture ausiliarie che definivano l'intero complesso rituale, comprensivo di una piattaforma allungata denominata Ixbalamque

Gli archeologi hanno scoperto più di 7.000 pezzi di gesso e resti delle pareti distrutte. I frammenti che riportano il giorno dei "7 cervi" sono stati attribuiti tra la III e la IV fase costruttiva, quando la piramide centrale era più piccola. Per ampliarla i suoi muri furono abbattuti. Ciò che ha destato maggiormente l'attenzione degli studiosi è il rispetto con cui i Maya trattarono i detriti depositandoli con precisione all'interno della camera ampliata come una sorta di sepoltura simbolica delle immagini e dei testi su di esse custoditi. La cura con cui i Maya smantellarono il murales, come ne hanno rimosso l'intonaco, come lo hanno posto all'interno della camera suggerisce l'esistenza di una regola costruttiva: realizzando la nuova struttura, seppellirono quella vecchia come se la considerassero qualcosa di sacro, là dove nelle immagini dipinte, impregnate di ritualità, era stata impressa la Vita.

Le indagini sulle fondamenta architettoniche di questo complesso rituale hanno rivelato dipinti anche precedenti e un frammento che conteneva importanti prove della prima scrittura geroglifica Maya. I famosi murales policromi di San Bartolo raffigurano divinità e umani in scene di carattere mitologico che ci danno uno spaccato della loro cultura e religione. Sembra furono dipinti all'interno di un tempio, durante la penultima fase del complesso. Con l'aiuto di sofisticate tecnologie di imaging e delle conoscenze accumulate su tale civiltà, i ricercatori sono riusciti a ricomporre scene che mostrano l'origine del mondo secondo l'antico popolo scomparso, del loro dio del mais o del dio del Sole che sorge sulla montagna.

Gli archeologi hanno anche trovato glifi che forniscono nuovi indizi sugli aspetti chiave di questa antica cultura. Uno è il primo riferimento scritto abbinato a una figura su un trono in dipinti che precedono di 100 anni la monarchia di Tikal, Ceibal o Palenque. Datato tra il 300 e il 200 a.C. circa, è considerato uno dei primi esempi di scrittura precolombiana del Mesoamerica, testimoniando che già allora esistevano una complessa organizzazione sociale e una gerarchia del potere. Precedenti scoperte di iscrizioni geroglifiche al San Bartolo hanno dimostrato che i sistemi di scrittura si erano sviluppati nell'area delle pianure Maya centrali molto prima di quanto si pensasse in precedenza. I primi esempi di scrittura geroglifica Maya, trovati a Oaxaca, in Messico, risalgono al 400 a.C. circa, quelli di San Bartolo risalgono al 300 a.C. circa, un indicatore significativo di espansione in un breve lasso di tempo, considerando che San Bartolo si trova più di 800 chilometri a sud-est di Oaxaca.


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Esposti finalmente al pubblico quattro busti dell’età del ferro e un secchiello rituale in legno dei primi secoli a.C. trovati in un villaggio della Bretagna. È possibile che un tempo fosse un set con uno scopo religioso, profanato e bruciato...


a cura della redazione, 4 aprile

Quattro busti dell’età del ferro e un secchiello in legno ben conservato sono stati presentati al pubblico per la prima volta in una mostra al Musée de Bretagne - Les Champs Libre a Rennes, in Bretagna. Il secchio è l'unico in Bretagna ad essere stato trovato in un pozzo invece che in una tomba. I cinque oggetti sono stati scoperti nell’autunno del 2019 in uno scavo a Trémuson che si è rivelato essere una grande tenuta dell’élite gallica occupata e modificata tra il III e il I secolo a.C..
La prima scultura è stata trovata a faccia in giù, deposta accuratamente in una fossa scavata su misura nei pressi di una grande casa. È il busto in pietra di un uomo con i capelli e la barba accuratamente raffigurati. 

Questo personaggio apparteneva chiaramente a un'importante famiglia della città di Osismes che occupava allora questa parte della penisola bretone. Indossa infatti una torque, una collana formata da un'asta di metallo rifinita da sfere o dischi, concessa dalle città galliche in maniera onoraria ai loro membri più valorosi. La parte inferiore dell'opera, incompiuta, termina in un punto: originariamente doveva essere collocata nel terreno o in altro materiale. Viene interpretato come un'effigie destinata a perpetuare la memoria del defunto e la grandezza della sua famiglia. 

LO SAPEVI CHE - Meno di trenta sculture di questo tipo sono registrate su tutto il territorio nazionale, quasi la metà in Bretagna. Le quattro opere di Trémuson fanno eco ai quattro busti scoperti più di vent'anni fa durante gli scavi della residenza aristocratica gallica di Paule, nei pressi di Carhaix, raffiguranti un bardo con la sua lira.

Dopo aver scoperto la prima scultura, gli archeologi hanno deciso di esplorare il pozzo dietro la casa, profondo 6 metri. Qui sono state rinvenute altre tre sculture a torso nudo, modellate più grossolanamente. I quattro busti recano tutti tracce di bruciature. È possibile che un tempo fosse un set con uno scopo religioso, profanato e bruciato nel I secolo a.C., utilizzato dai druidi, i sacerdoti, depositari della cultura tradizionale celtica, dello studio degli astri e dei loro movimenti, della grandezza del mondo e della terra, della natura delle cose, della forza e potestà degli dei immortali.

Il terreno impregnato d’acqua del pozzo abbandonato aveva conservato gli oggetti, inclusa una grande quantità di legno, gettato al suo interno: assi carbonizzati e altri elementi architettonici tra cui pali e travi. Le assi potrebbero aver fatto parte della copertura del pozzo nel suo periodo di massimo splendore. In totale, il team ha recuperato 460 pezzi di legno impregnato d’acqua, la maggior parte dei quali frammentari e parzialmente carbonizzati dal fuoco. In fondo al pozzo c’erano i tre busti, pezzi di mobili in legno, un maglio di frassino, un secchio cilindrico di quercia, diverse doghe e l’eccezionale secchio da cerimonia a treppiede.

Realizzato in legno di tasso, circondato da due cinghie di bronzo e decorato con piatti in bronzo traforati, il secchio a treppiede risale alla seconda metà del II secolo a.C.. Veniva probabilmente utilizzato durante cerimonie druidiche per servire una bevanda sacralizzata. Il secchio è quasi completo, mancano solo alcuni piccoli pezzi traforati e accenti di metallo. Ha un foro di scarico sul fondo che ha ancora il suo tappo d’acero in posizione. Il maglio era frammentato a causa di una frattura nella mortasa. Ha anche perforazioni da falegnameria, segni visibili di una lama da pialla sul lato inferiore della testa, e piccoli tasselli utilizzati per rinforzare le doghe nei loro punti di connessione, ancora saldamente in posizione. I fragili pezzi di legno sono stati imbevuti di PEG (soluzioni di glicol polietilenici) per rimuovere l'acqua nelle celle, sostituendola con una sostanza cerosa per impedire al legno di deformarsi e restringersi mentre si asciuga. Il processo è durato due anni. Conservato e stabile, il secchio sacerdotale, insieme alle quattro sculture, rimarrà in esposizione fino al 4 dicembre 2022.


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Scoperto nel villaggio di Çitli il primo esempio d gioiello da polso con raffigurazioni figurali dell'antico popolo indoeuropeo, realizzato 3.300 anni fa...


a cura della redazione, 27 marzo

Nel 2011 un uomo fece un’insolita scoperta archeologica, mentre arava la sua fattoria nel villaggio di Çitli, nella Turchia centro-settentrionale. Nonostante le pesanti macchine agricole lo avessero frantumato in tanti pezzi, si rese conto che aveva tra le mani un oggetto molto antico. Ne raccolse tutte le parti e le portò al Museo di Çorum. Gli esperti lo hanno identificato come un raro braccialetto del XIII secolo a.C.. Il luogo esatto del ritrovamento è rimasto sconosciuto, poiché il contadino aveva arato cinque campi quel giorno, e nonostante successive indagini archeologiche non sono stati rinvenuti in quei luoghi altri manufatti. Dopo un ampio restauro, gli esperti hanno scoperto dalle raffigurazioni figurali presenti sul bracciale che appartiene all’antica civiltà ittita, l’unico ritrovato sino ad ora, costituito da una lunetta ellittica di metalli preziosi, una forma in precedenza presente solo nei sigilli ad anello di questo popolo. Il misterioso manufatto è finalmente stato esposto al pubblico, per la prima volta, al Museo Archeologico di Çorum, come riporta il Daily Sabah

LO SAPEVI CHE - Le divinità ittite erano molte: la storia lo tramanda come il popolo dei mille dei. Essi facevano propri tutti quelli venerati dai popoli che conquistavano, in quanto credevano che questo conferisse loro più potere. Inoltre gli ittiti fecero proprie le diverse divinità anatoliche, chiamandole con il nome hattico. Nel Pànteon ittita la dea Ishtar era identificata con Shaushka, raffigurata con le ali, in piedi su un leone; aveva due seguaci, Ninatta e Kulitta. Fu venerata nel Regione del Toro, soprattutto a Samuha. Il re ittita Hattusilis III la prese come sua dea protettrice. Tale divinità, cui venvano attributi al contempo attribti di compassione e giustizia, aveva anche attributi maschili: poteva punire i bestemmiatori e gli autori di spergiuro con la riassegnazione di genere. Nei testi ittiti, si trova spesso accompagnata da  Sintal-wuri, Sintal-irti e Sintal-taturkani, i cui nomi hurriti si riferiscono tutti al numero sette. È nella processione degli dei Yazilikaya, santuario di Hattusa, la capitale dell'impero ittita tra il 1700 a.C. e il 1200 a.C. (si trova a 70 miglia a sud-ovest del sito di ritrovamento), la dea è raffigurata con le sue due ancelle.

L’antico oggetto, di cui manca una sezione al centro, è realizzato in una lega di rame, stagno e arsenico e misura circa 7 centimetri di diametro nel punto più largo. È formato da una fascia modellata a forma ellittica con le punte piegate all’indietro e forgiate insieme a formare un anello. Una piastra montata sull’ellisse è ornata da una scena di figure in rilievo eseguita con la tecnica dello sbalzo, incorniciata da un bordo di semicerchi e linee. 

LO SAPEVI CHE Gli Ittiti erano un antico popolo indoeuropeo che abitava la parte centrale dell’Asia Minore nel II millennio a.C. e il più noto degli antichi popoli anatolici. Il primo riferimento si trova nell’Antico Testamento, dove vengono menzionati come Chittim o Hitti, da cui ebbe origine in greco chetaios (o chettaios) che in latino diventò hetaeus o hettaeus. Il termine venne ripreso in mano da Lutero che lo tradusse come Hethiter in tedesco, passato poi in italiano come Ittita.

Al centro del rilievo a sbalzo è posta una figura stante, cui segue una processione di libagioni che si muove verso l’interno da entrambe le estremità dell’ellissi. Su i due lati della fascia, sia a sinistra sia a destra, è inciso una sorta di altare con gambe ricurve, che terminano con una zampa di animale. 

LO SAPEVI CHE - Agli dei veniva offerto da mangiare, anche per mezzo di sacrifici animali. Questo è testimoniato dalla presenza di magazzini attorno ai templi. Solo dopo che le divinità avevano mangiato, il popolo ed i sacerdoti potevano prendere parte al banchetto. Ishtar era la divinità femminile più importante nella civiltà assiro-babilonese. Era dea dell’amore e della guerra, sorella gemella del Sole (Samash) e figlia della Luna (Sin), e nel culto astrale si identificava con Venere. I sumeri la assimilarono con la loro Inanna, dea della madre terra e della fecondità, e il culto di Ishtar si diffuse poi anche fuori dalla Mesopotamia ai popoli vicini: in tutta l’Asia occidentale Ishtar divenne la personificazione della fertilità e della maternità. Fu venerata da semiti, ittiti, hurriti, fenici, siriani; penetrò anche nel mondo greco-romano col nome di Astarte. Fu protagonista di numerosi poemi epico-mitologici, fra cui quello della sua discesa agli Inferi e quello dell’epopea del semidio Gilgamesh.

I due “altari” sono drappeggiati con un telo che sembra coprire le offerte. Sul lato sinistro di ciascuno di essi sono posizionate due figure femminili (di una rimane solo la parte posteriore della testa) che si snodano verso destra, con il braccio sinistro che porta qualcosa, mentre il destro è visibilmente piegato verso l’alto. Di fronte a loro c’è un’altra figura con tratti più definiti. Le sue gambe sono di profilo e rivolte verso destra, mentre il busto è posizionato frontalmente. Indossa un indumento in due pezzi con una sorta di gonna, un mantello. Sulla sua spalla destra si intravede un’ala. Tutti questi particolari sono stati sufficienti per identificare la figura centrale come la dea Ishtar. Per gli archeologi, invece, le due figure femminili di fronte alla dea sono Ninatta e Kulitta. Una scena simile era stata trovata in precedenza su alcuni sigilli ittiti e rilievi rupestri.


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a cura della redazione, 28 marzo

Nei pressi dell’antica città di Uruk, un team internazionale di archeologi del Ministero delle Antichità iracheno e dell’Istituto Archeologico Tedesco (DAI) ha recentemente recuperato una barca realizzata in bitume e materiale organico, documentandola digitalmente in tre dimensioni mediante fotogrammetria. Era stata scoperta per la prima volta nel 2018 nella zona archeologica intorno a Uruk durante un programma di documentazione sistematica dei numerosi resti di canali, campi agricoli, insediamenti e siti di produzione che punteggiano i dintorni della capitale sumera. I bordi della barca erano stati scoperti dall’erosione e da allora gli archeologi hanno tenuto d’occhio le sue condizioni. Il mese scorso è iniziata l’operazione di salvataggio. 

LO SAPEVI CHE Uruk, conosciuta anche come Warka, era un’antica città sumera, situata lungo il letto oggi prosciugato del fiume Eufrate. Secondo l'elenco dei re sumeri, fu fondata dal re Enmerkar intorno al 4500 a.C.. Era il più grande insediamento della Mesopotamia meridionale. Svolse un ruolo di primo piano nella prima urbanizzazione di Sumer a metà del IV millennio a.C., emergendo come un importante centro abitato fino a quando non fu abbandonato poco prima o dopo la conquista islamica del 633–638 d.C. 

Si tratta di una barca conservata in materiale organico (canna, foglie di palma o legno) completamente ricoperta di bitume. È lunga 7 metri e larga fino a 1,4 metri. Non è più spesso di 1 centimetro in molti punti. I resti organici non sono più conservati e sono visibili solo come impronte nel bitume. Il contesto archeologico mostra che affondò sulla riva di un fiume che da allora si è insabbiato, probabilmente circa 4000 anni fa, ed è stato ricoperto da sedimenti. La barca è stata ricoperta da un guscio di argilla e gesso per la stabilizzazione direttamente durante lo scavo e potrebbe quindi essere recuperata in gran parte completa. In conformità con la legge irachena sulle antichità, è stata portata all’Iraq Museum di Baghdad per ulteriori studi scientifici.


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Fino a un quarto di tutte le impronte sulle pareti di antiche caverne in Spagna furono realizzate da piccoli umani, anche neonati...

I ricercatori hanno scoperto quella che è forse l'opera d'arte più antica del mondo, riproducendone una scansione tridimensionale, su un promontorio roccioso a Quesang sull'altopiano tibetano


a cura della redazione, 25 marzo

Negli ultimi decenni, è stato identificato un numero crescente di impronte di mani umane sulle pareti delle caverne, tale da entrare in competizione con altre forme di arte rupestre: 750 rappresentazioni distribuite in Francia, Regno Unito, Spagna e Italia, che costituiscono un corpus nutrito di indizi su usi e costumi del Paleolitico. Un recente articolo pubblicato sul Journal of Archaeological Science da Verónica Fernández-Navarro e Diego Garate, dell'Università della Cantabria, insieme a Edgard Camarós, dell'Università di Cambridge, ha iniziato ad analizzare alcune di quelle impronte da una nuova e intrigate prospettiva. Nella loro ricerca, gli studiosi hanno preso a campione cinque grotte in Spagna (Fuente del Salín, Castillo, La Garma, Maltravieso e Fuente del Trucho), scoprendo che la maggior parte delle impronte di mano "umana" riprodotta su quelle pareti di pietra furono realizzate soffiando polvere di pigmento attraverso un osso cavo o una canna su mani talmente piccole ce avrebbero potuto essere solo di bambini, anche piccolissimi, oppure di nani. Il che cambia la prospettiva di chi realizzò i disegni, e l'arte rupestre preistorica in generale, registrati in tutto il mondo. Sino ad oggi, gli scienziati erano generalmente d'accordo sul fatto che fossero stati realizzati da uomini adulti, o appena adolescenti, appartenenti a un gruppo elitario a scopo iniziatico. In questo nuovo studio, i ricercatori hanno trovato prove che suggeriscono che fino a un quarto di tutte le impronte presenti sulle pareti delle caverne furono realizzate usando mani dalle dimensioni talmente piccole, e alcune sono state attribuite a bambini anche di pochi mesi. Perché tanta prevalenza di bambini? Quale poteva essere il loro ruolo in seno al contesto rituale cui sono stati collegati tali stampi? 

Attualmente, nell'arte paleolitica europea sono note 56 grotte con motivi a mano umana. Questi contengono un totale di 769 mani, di cui il 90% sono immagini negative o stencil, il 9% sono immagini o impronte positive e l'1% sono rappresentazioni miste. Le grotte con questi motivi sono concentrate in due aree principali, la Spagna settentrionale e la Francia meridionale. Per la precisione, 30 delle grotte si trovano in Francia, 23 in Spagna, 1 a Gibilterra e 2 in Italia.

Storicamente, i primi tentativi di avvicinamento alla presenza dei bambini nelle popolazioni paleolitiche sono stati considerati attraverso gli studi antropologici di resti ossei nei contesti mortuari di siti come: Lagar Velho in Portogallo, Sungir in Russia, Dolní Věstonice in Moravia, Kostenki in Russia, Krems in Austria, Abri Pataud e La Madeleine nella Dordogna francese, e la Grotta des Enfants in Italia, nonché ritrovamenti di resti di bambini umani. Anche gli studi etnologici hanno avuto un ruolo importante per sintonizzarsi con le interconnessioni e le sovrapposizioni tra il mondo degli adulti e quello dei bambini tra cacciatori-raccoglitori e altre società “tradizionali” e il possibile ruolo di questi bambini all'interno delle loro comunità. Studi recenti hanno gradualmente introdotto la considerazione dei bambini come generatori della documentazione archeologica. Nel caso del Paleolitico si sono concentrati sulla ricerca di prove dell'apprendimento nella riduzione litica; l'interpretazione di alcuni oggetti come giocattoli; e la trasmissione della conoscenza delle attività artistiche, come l'incisione e arte parietale.

L'opera d'arte più antica è una sequenza di mani e impronte scoperte sull'altopiano tibetano. Le stampe risalgono alla metà del Pleistocene, tra 169.000 e 226.000 anni fa, da tre a quattro volte più antiche delle famose pitture rupestri in Indonesia, Francia e Spagna che risalgono a un periodo compreso tra i 45.000 e i 30.000 anni fa. Una scoperta del 2018, annunciata a settembre 2021, e che ha lasciato aperte le. più diverse interpretazioni del valore simbolico attribuito alle impronte delle mani, lasciati dagli ominidi centinaia di migliaia di ani prima, e non a caso si trattava, anche allora, di di impronte individui moto giovani. Bambini di Homo sapiens?

I ricercatori hanno notato che, invece di appoggiare le mani sul muro, la maggior parte delle stampe era stata eseguita tenendo la mano a una leggera distanza dalla parete, generando una sorta di stencil con un aspetto leggermente 3D. Nel replicare la tecnica, gli studiosi hanno scoperto che lo stampo risultava essere leggermente più grande della "mano matrice" utilizzata per crearlo. Hanno quindi studiato da vicino centinaia di impronte cercando di riprodurle con la stessa procedura utilizzata anticamente. Misurazioni accurate hanno indicato che molte delle mani appartenevano a bambini, compresi neonati e bambini d pochi anni, o comunque a individui molto minuti. L'abbondante ed omogenea partecipazione dei bambini dai quattro anni di età e almeno fino ai nove anni, suggerisce che individui di tutte le età prendessero parte all'attività grafica e che la creazione di arte rupestre potrebbe quindi essere stata un'azione collettiva delle società preistoriche.


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a cura della redazione, 18 marzo

Pochi giorni fa è emerso un altro pezzo di storia dagli scavi in corso nell'area archeologica di Castro, in località "Capanne", nel Basso Salento, dove da anni sono in corso le indagini archeologiche per portare alla luce i resti del tempio di Minerva e dell'imponente statua scultorea del IV secolo a.C. dedicata al culto della Dea. Nel 2015 erano stati portati alla luce il busto e numerosi frammenti di una statua che la ritrae. Ora, a 3 metri di profondità dal punto in cui è avvenuto il ritrovamento della parte superiore, gli archeologi hanno trovato la parte inferiore del manufatto. Il reperto ha una lunghezza di circa 160 centimetri e sarebbe lesionato in due parti: mostra il resto del peplo e un accenno del piede destro della dea. 

Vogliamo ricordare che il termine Minerva è di derivazione etrusca. La Dea della Saggezza degli Etruschi, infatti, si chiamava Menrva e faceva parte della trinità principale, insieme a Tinia e Uni, poi riflessa nella triade romana Giunone, Giove e Minerva. Nella mitologia greca, la corrispondenza diretta è con la Dea Meti, la Dea  della Giustizia, secondo molti di origine libica trapiantata ad Atene, Grande Madre e Dea dai tre volti, uno dei quali un po' terrifico e guerriero. La natura che crea, accresce e distrugge. La Dea Meti a seguito di guerre e battaglie perse tono e fu sostituita da sua figlia Athena, in realtà uno dei suoi aspetti assunto a ruolo primario. Pochi sanno che la Dea portava uno scudo di aegis cioè di pelle di capra, tratta dalla capra Amaltea, già usata da Zeus come mantello armatura. L'etimologia del nome etrusco è collegata a Meneswā "Colei che misura", una divinità antica italica pre-etrusca, il cui nome contiene la radice men-. Carl Becker notò essere legata a parole di memoria (cfr. greco "mnestis"/μνῆστις 'memoria, ricordo, ricordo'), e più in generale alla 'mente' nella maggior parte delle lingue indoeuropee. 

LO SAPEVI CHE Anat è la dea cananea della guerra, della saggezza e dell'amore. È una guerriera e un'arciera.
Era rinomata per il suo carattere violento, le sue inclinazioni litigiose e la sua insaziabile spinta alla vittoria. Eppure il suo più grande attributo era l'integrità, si sarebbe ribellata e avrebbe litigato con El, se la divinità principale si fosse comportata ingiustamente. Sulla costa occidentale e a Cartagine, era conosciuta come Tanit.

Tale Dea è l’equivalente di Iside nell’Antico Egitto, della Sarasvati Indù, della Ishtar mesopotamica, della Nahid persiana, dell’Anat fenicia, della Pria proto-indoeuropea, della Inanna sumera e dell’Anahita zoroastriana. Gli scavi, compiuti in base ad una concessione Soprintendenza-Comune di Castro, sono finanziati da un gruppo di privati sotto la direzione scientifica del professor Francesco D'Andria dell'Università del Salento e coordinati dagli archeologi Amedeo Galati e Alessandro Rizzo. Le ricerche cercano di ricostruire il volto millenario del luogo dove Enea approdò in fuga da Troia. Gli studi condotti lasciano pensare che i luoghi nei quali sono stati ritrovati i reperti, nelle sale del castello di Castro, che ospita la sede del Museo archeologico, siano riconducibili alla rocca con il tempio di Minerva, dove sbarcò l'eroe progenitore di Roma. La descrizione del luogo giunge a noi dall’Eneide, il celebre poema epico scritto dal poeta latino Virgilio, che narra come Enea, approdato sulla costa, vide dal mare un tempio dedicato appunto alla dea Minerva.


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Gli archeologi scoprono, in una tomba consacrata al Dio dagli Occhi Chiusi, gli strumenti di un chirurgo della cultura Sicán...


a cura della redazione, 22 marzo

Un fascio funerario scoperto in una tomba del periodo del Medio Sicán (900-1050 d.C.) nel sito archeologico di Huaca Las Ventanas nella regione di Lambayeque in Perù include una serie di strumenti che indicano che il defunto era un chirurgo: una cinquantina di coltelli di diversi tipi, aghi di varie dimensioni con i rispettivi fili e residui di corteccia utilizzata per infusi e analgesici. Questa è la prima scoperta del genere mai fatta a Lambayeque o nel nord del Perù. Il fascio funerario è stato portato alla luce dagli archeologi del Museo Nazionale di Sicán in uno scavo nella necropoli meridionale di Huaca Las Ventanas. È stato rimosso insieme al terreno e al contesto sabbioso per proteggerlo dall'erosione e dalle inondazioni dell'adiacente fiume La Leche. Il materiale recuperato era stato trasportato al museo. Solo un decennio dopo, però, una sovvenzione del National Geographic Donation Fund concessa al museo nel 2021, ha permesso di esplorare completamente la sepoltura. Lo scavo ha avuto luogo tra ottobre 2021 e gennaio di quest'anno. All'interno del fascio c'era una maschera d'oro dipinta con cinabro, un grande pettorale di bronzo, ciotole di rame dorato e un indumento simile a un poncho con lastre di rame. Sotto il poncho c'era un vaso di ceramica con un doppio beccuccio e un manico a ponte ricurvo con una piccola figura all'apice che rappresentava il Re Huaco. 

Il kit chirurgico contiene un set completo di punteruoli, aghi e coltelli di varie dimensioni e configurazioni.Ci sono circa 50 coltelli in totale. La maggior parte sono una lega di bronzo ad alto contenuto di arsenico. Alcuni hanno manici in legno. C'è anche un tumi, un coltello cerimoniale con lama a mezzaluna. Accanto al tumi c'era una planchette di metallo con un simbolo associato a strumenti chirurgici. Accanto alla planchette sono state rinvenute due ossa frontali, una adulta e una giovanile. I segni sulle ossa indicano che sono stati deliberatamente tagliati con tecniche di trapanazione. Ciò ha confermato che gli strumenti erano destinati all'uso in chirurgia. Sebbene gli strumenti siano unici per la regione, un ritrovamento simile è stato fatto a Paracas nel 1929. Gli strumenti sono tuttavia realizzati con materiali diversi. Le lame del set di Paracas sono state realizzate con ossidiana vulcanica affilata.

È la prima scoperta di questo tipo qui a Lambayeque e nel nord del Paese. Risale dall'anno 900 al 1050 dopo Cristo, di appartenenza culturale del Medio Sicán. Non stiamo solo documentando figure d'élite di culto legate alla metallurgia, ma anche specialisti e interventi chirurgici”, ha sottolineato il Direttore del Museo Nazionale Sican Carlos Elera su Andina.

Un pezzo di corteccia di un albero sconosciuto trovato nel fascio potrebbe essere stato usato per scopi medicinali, quali infusioni analgesiche o antinfiammatorie, come la corteccia di salice bianco che ancora oggi è considerata fondamentalmente un tè di aspirina.

Sarà studiato per scoprire a quale specie appartenesse, quale uso avesse allora come oggi. Ovviamente, sarà necessario anche un confronto dettagliato con gli strumenti chirurgici rinvenuti a Paracas. Ce ne sono alcuni che coincidono e altri no. Tra i reperti di Lambaye, abbiamo l'asta del Dio della Maschera con gli Occhi Chiusi, un elemento sempre presente”, che deve essere antropologicamente contestualizzato secondo lo studioso.

Poco distante, nella Huaca Santa Rosa de Pucalá, situata nell'omonimo distretto, nella regione di Lambayeque, i ricercatori hanno scoperto quattro tombe contenenti i resti di bambini e adolescenti sepolti come offerte al momento della costruzione della prima delle tre contenitori in stile Wari con una forma a "D". Questi reperti fanno parte di un possibile rituale svolto al momento dell'inizio della costruzione di questi spazi religiosi in stile wari. Nel secondo recinto a forma di “D” è stata scoperta una tomba con offerte legate ad una tradizione locale durante la Fase 3 di Santa Rosa (850 – 900 dC). La tomba conteneva una brocca con iconografia Mochica, una bottiglia nel noto stile del primo Sicán (dalla valle di La Leche) o in stile proto-Lambayeque (dalla valle di Jequetepeque), una pentola con decorazione paleteado e un coltello o tumi con una lama a forma di mezza luna.

Tali scavi hanno rivelato, per la prima volta, l'esistenza di un tempio del periodo formativo , contemporaneo alla fine della cultura Chavín, che ha caratteristiche totalmente diverse da quelle precedentemente trovate a Lambayeque. Costruito con muri fatti di fango come cassaforma, che includono mazze di argilla come prototipi di mattoni all'interno delle mura, ha una pavimentazione molto elaborata, soffitti realizzati con resti vegetali e mostra prove dell'incenerimento di oggetti. Secndo gli studiosi questo tempio fu costruito da un gruppo umano con caratteristiche locali legate alle montagne , a dimostrazione che negli anni dal 400 al 200 a. C. c'erano diverse comunità sulla costa con interazioni verso la montagna e che mostrano anche marcate differenze con i gruppi del Periodo Formativo che si trovano nella parte bassa della valle, a Collud e Ventarrón.


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a cura della redazione, 21 marzo

Gli archeologi li chiamano “cucchiai”. Hanno un’età compresa tra 2.200 e 2000 anni e sono stati trovati a Crosby Ravensworth nell’Eden Valley nel 1868. Secondo l’edizione del 1869 del "The Archaeological Journal", sono stati trovati da un contadino vicino a una sorgente d’acqua. C’era un piccolo tumulo vicino alla sorgente, nel quale sono stati trovati pezzi di pietra da taglio che erano stati evidentemente sottoposti all’azione del fuoco, e alcune tracce di cenere e di terra bruciata terra. La cosa strana è che tali oggetti non sono stati trovati insieme, ma a sette metri di distanza l’uno dall’altro nel terreno paludoso che circonda la sorgente e a una profondità di circa mezzo metro. Non ce ne sono molti altri simili, ne sono stati trovati solo 25 tra Gran Bretagna, Irlanda e Francia, e sempre in coppia, tutti con la stessa “decorazione” di base: uno dei due è inciso con linee che lo dividono in quattro quarti e l’altro ha un foro praticato su un lato. 

Hanno un "manico" poco profondo, simile a un’estremità abbastanza grande da poter essere afferrata tra il pollice e l’indice. Su entrambe le due impugnature è inciso un cerchio: uno è più piccolo e al suo interno sono tratteggiate due forme, simili a embrioni, unite da una linea irregolare, che ricordano lo Yin e lo Yang; l'altro, più grande, contiene un disegno più complesso, nel quale sembra essere circoscritto un triskele. Non sono ovviamente fatti per mangiare. Si è ipotizzato, però, abbiano uno scopo rituale, forse battesimale. Il British Museum, che li costudisce, suggerisce che potrebbero anche aver avuto uno scopo divinatorio, con il liquido che veniva sgocciolato dal cucchiaio con il foro sul cucchiaio diviso in quattro quarti. 

In questo caso, tra le ipotesi, gli studiosi suggeriscono che possano essere stati utilizzati acqua, birra o sangue, o comunque un liquido piuttosto viscoso, forse anche l'albume d’uovo. Nessuno dei 25 cucchiai è stato trovato, per quanto ne sappiamo vicino a insediamenti. La maggior parte proviene da paludi, fiumi e sembra siano stati sepolti deliberatamente. Alcuni sono stati trovati persino nelle tombe. D’altronde per i Celti, come per altri popoli prima di loro, la terra acquosa era una terra di mezzo, una sorta di portale per comunicare con gli inferi. E il fatto che oggi continuiamo a buttare monete in pozzi, fontane o sorgenti suggerisce che questo istinto è ancora profondamente radicato in noi.


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