a cura della redazione, 21 marzo

Gli archeologi li chiamano “cucchiai”. Hanno un’età compresa tra 2.200 e 2000 anni e sono stati trovati a Crosby Ravensworth nell’Eden Valley nel 1868. Secondo l’edizione del 1869 del "The Archaeological Journal", sono stati trovati da un contadino vicino a una sorgente d’acqua. C’era un piccolo tumulo vicino alla sorgente, nel quale sono stati trovati pezzi di pietra da taglio che erano stati evidentemente sottoposti all’azione del fuoco, e alcune tracce di cenere e di terra bruciata terra. La cosa strana è che tali oggetti non sono stati trovati insieme, ma a sette metri di distanza l’uno dall’altro nel terreno paludoso che circonda la sorgente e a una profondità di circa mezzo metro. Non ce ne sono molti altri simili, ne sono stati trovati solo 25 tra Gran Bretagna, Irlanda e Francia, e sempre in coppia, tutti con la stessa “decorazione” di base: uno dei due è inciso con linee che lo dividono in quattro quarti e l’altro ha un foro praticato su un lato. 

Hanno un "manico" poco profondo, simile a un’estremità abbastanza grande da poter essere afferrata tra il pollice e l’indice. Su entrambe le due impugnature è inciso un cerchio: uno è più piccolo e al suo interno sono tratteggiate due forme, simili a embrioni, unite da una linea irregolare, che ricordano lo Yin e lo Yang; l'altro, più grande, contiene un disegno più complesso, nel quale sembra essere circoscritto un triskele. Non sono ovviamente fatti per mangiare. Si è ipotizzato, però, abbiano uno scopo rituale, forse battesimale. Il British Museum, che li costudisce, suggerisce che potrebbero anche aver avuto uno scopo divinatorio, con il liquido che veniva sgocciolato dal cucchiaio con il foro sul cucchiaio diviso in quattro quarti. 

In questo caso, tra le ipotesi, gli studiosi suggeriscono che possano essere stati utilizzati acqua, birra o sangue, o comunque un liquido piuttosto viscoso, forse anche l'albume d’uovo. Nessuno dei 25 cucchiai è stato trovato, per quanto ne sappiamo vicino a insediamenti. La maggior parte proviene da paludi, fiumi e sembra siano stati sepolti deliberatamente. Alcuni sono stati trovati persino nelle tombe. D’altronde per i Celti, come per altri popoli prima di loro, la terra acquosa era una terra di mezzo, una sorta di portale per comunicare con gli inferi. E il fatto che oggi continuiamo a buttare monete in pozzi, fontane o sorgenti suggerisce che questo istinto è ancora profondamente radicato in noi.


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a cura della redazione, 20 marzo

Un enigmatico oggetto rituale, dell'età del bronzo, è stato scoperto in una sepoltura della cultura Tagar nella Siberia meridionale. La tomba è stata portata alla luce nel cimitero di Kazanovka nel bacino di Minusinsk nel 2020. Al suo interno era sepolto il corpo di una donna, in un kurgan diviso in due recinti da lastre verticali di arenaria. In un'apparente continuazione dei rituali funebri della cultura Karasuk, la donna era stata sepolta con pezzi di carne e le carcasse di un vitello e di una pecora. Accanto alle carcasse sono stati trovati un coltello di bronzo e un punteruolo in una custodia di pelle. La testa di un cavallo era stata posta sul coperchio della tomba, costituita da una fossa rettangolare con un bordo a gradini. Grandi pietre ricoprivano il perimetro con piccole lastre che riempivano gli spazi vuoti. Il corpo era sepolto in posizione supina, la testa girata a ovest e le braccia tese lungo il corpo. 

Era decorato in modo molto elaborato: accanto al suo bacino c'era uno specchio circolare di bronzo con tracce di un sacchetto di pelle rossa. Placche di bronzo e spille sono state trovate accanto alla spalla destra. Vicino al suo gomito destro, invece, è stato rinvenuto lo strano oggetto, la cui parte superiore era una “X” composta da tubolari filettati di bronzo e perline a cappuccio intervallate da perline di corniola. Dalla parte inferiore, anch’essa realizzata con perline tubolari di bronzo e di argillite bianca, pendeva una zanna di cinghiale. 

Al centro, gli archeologi hanno rilevato brandelli di quella che potrebbe essere stata una borsa di stoffa di seta e il frammento di costola umana. Altre sepolture nella regione hanno perline, ossa di animali, zanne di cinghiale o cervo muschiato e artigli di uccelli, rinvenute quasi sempre in associazione all'interno di sepolture femminili. Mai prima d'ora, però, in un contesto tagario così antico, gli archeologi avevano trovato qualcosa di simile. La spiegazione potrebbe venire da parallelismi etnografici con altre culture della zona. 

La cultura Tagar, che prende il nome da un'isola nel fiume Yenisei ed era la cultura archeologica dominante nel bacino di Minusinsk in Khakassia dalla tarda età del bronzo all'età del ferro, cioè dall'VIII al III secolo a.C. circa, fu preceduta dalla cultura Karasuk dell'età del bronzo e dalla cultura di Tashtyk, che esistevano parallelamente alla cultura degli Sciti in Crimea e sulle coste settentrionali del Mar Nero. In questa prospettiva, l’osso umano custodito nell'amuleto potrebbe essere assimilato a un culto sciamanico, come quello praticato dal popolo Yukaghir, lungo il bacino del fiume Kolyma nelle regioni dell'estremo nord-est della Siberia, del quale è stata documentata la tradizione di sezionare il corpo di uno sciamano in amuleti.


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Portate alla luce nell'antica necropoli tentacolare egizia antiche sepolture altamente decorate con simboli e geroglifici rituali di oltre 4.000 anni fa...


a cura della redazione, 19 marzo

Gli archeologi hanno scoperto cinque tombe di alti funzionari nelle amministrazioni faraoniche dell’Antico Regno e del Primo Periodo Intermedio nella necropoli di Saqqara, 30 chilometri a sud-ovest del Cairo. Le pareti sono ricoperte da dipinti di alta qualità in ottime condizioni, i colori ancora vividi, nonostante siano trascorsi più di 4.000 anni, in alcuni passaggi di particolare rilevanza cultuale, indicano la voluta scelta cromatica del bianco, del rosso e del nero. 

Le tombe sono state trovate all’inizio di questo mese dalla piramide di Merenre Nemtyemsaf I (costruita intorno al 2490 a.C.). A segnalarlo, una nota del Ministero del Turismo e Antichità egiziano. I sepolcri in pietra sono riemersi durante scavi effettuati nell'area sul lato nord-orientale della piramide e sono stati ispezionati dal ministro del Turismo e delle Antichità egiziano, Khaled El-Enany, e dal segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità, Mostafa Waziri.

Sebbene gli studiosi abbiano lavorato nel sito dallo scorso settembre, le tombe sono state scoperte solo all'inizio di questo mese vicino alla piramide a gradoni di Djoser. Per accedervi è necessaria una profonda discesa attraverso pozzi funerari, le cui pareti sono rivestite da geroglifici ben conservati raffiguranti animali sacri, materiali rituali come i sette oli sacri, offerte di cibo, iscrizioni geroglifiche, urne e simboli dell'aldilà. I giornalisti hanno dovuto essere calati nel pozzo funerario profondo con una fune su un argano.

Alcune delle tombe risalgono all'Antico Regno (2649 - 2150 a.C.), mentre altre risalgono al Periodo successivo, noto come Primo Intermedio (2150–2030 a.C.). Ogni tomba contiene il riferimento a titolature legate a governanti regionali, sacerdoti e alti funzionari di palazzo. La prima comprende un profondo pozzo funerario e una camera decorata con immagini che includevano altari e una rappresentazione del palazzo, nonché un sarcofago scolpito nel calcare. Nella nota diffusa dal ministero, si legge che il lungo corridoio porta a una camera appartenuta a un dignitario di nome "Iry", riccamente decorata. La seconda, caratterizzata da un pozzo funerario rettangolare, apparteneva, verosimilmente, alla moglie di un uomo di nome “Yaret”. 

La terza camera di sepoltura è stata attribuita a un sacerdote e purificatore, “Pepi Nefhany”, il cui pozzo funerario è profondo sei metri. Un quarto pozzo, della stessa misura, sembrerebbe essere stato costruito per una donna di nome “Petty”: "l'unica responsabile dell'abbellimento del re e sacerdotessa di Hathor". La quinta tomba dovrebbe essere stata allestita per un uomo di nome “Henu”, "sorvegliante e supervisore della casa reale" ed è costituita da un pozzo funerario rettangolare profondo sette metri. All’interno delle tombe gli archeologi hanno trovato più di 20 sarcofagi, oltre a numerose figurine, barche di legno, ceramiche, maschere e altri manufatti. Gli scavi sono ancora in corso. Quali altri misteri svelerà l'antica città del morti?


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a cura della redazione, 19 marzo

La visionaria mappa del mondo creata dal monaco del XV secolo Fra Mauro è stata digitalizzata e ora può essere esplorata in dettaglio online con una fantastica profondità e ampiezza di materiale esplicativo in italiano, inglese e cinese. Realizzata nel monastero di San Michele a Isola, intorno al 1450, la mappa ha adottato un approccio completamente nuovo alla cartografia, evitando le rappresentazioni di un mondo incentrato su Gerusalemme o Roma comuni nelle mappe europee medievali prima di allora. Si basa sulla Geografia di Tolomeo e sulle carte nautiche contemporanee. Include migliaia di annotazioni derivate da fonti antiche, studiosi medievali, esploratori come Marco Polo e Niccolò de' Conti e testimonianze oculari che Fra Mauro ricevette da viaggiatori a Venezia e di monaci in visita dall'Etiopia. È ricca di immagini iconografiche che rappresentano città, castelli, strade, navi e persino relitti. Leonardo Bellini, miniatore e nipote del famoso pittore Jacopo Bellini, vi dipinse un'immagine del Giardino dell'Eden in un angolo. La mappa fu esposta nel monastero e divenne rapidamente un'icona dello status di Venezia come fiorente centro del commercio e dell'arte globale. 

Vi rimase per 350 anni fino alla soppressione dei monasteri sotto Napoleone nel 1810. Oggi fa parte della collezione permanente della Biblioteca Nazionale Marciana. Nell'edizione digitale della mappa è possibile visionare tutti 2.922 cartigli della categoria "Spazio Geografico", che evidenzia città, paesi, regioni, specchi d'acqua, strade, ponti, rotte commerciali e molto altro ancora. Dal menu è anche possibile selezionare ed esplorare l'itinerario di viaggio di Marco Polo, legato ai luoghi contemporanei su Google Maps. La maggior parte delle selezioni del menu ha audio e video interattivi. Basta fare clic sui pulsanti di riproduzione per avviare spiegazioni dettagliate di ciò che stai vedendo. Abbiamo trovato molto interessante la rubrica "Luoghi leggendari" e le sezioni che contestualizzano la mappa, il suo significato all'epoca, il modo in cui è stata riprodotta e la sua collocazione in una timeline di altre mappe del mondo, anche più antiche, tutte digitalizzate e ad alta risoluzione. Ultima, ma certamente non meno importante, è una libreria digitale, nella quale ogni voce è un libro di geografia e di viaggi collegato alla versione digitalizzata del tomo in questione. Dalla bottega di Fra Mauro proviene anche una bellissima carta marina, oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana, che si distingue dalla produzione cartografica nautica del tempo per la ricchezza dei contenuti cosmografici. Non solo i cartigli la accomunano al mappamondo veneziano ma anche il disegno delle coste del Mediterraneo, che è del tutto coincidente, anche nelle dimensioni. Le due mappe sono perfettamente sovrapponibili, tanto che la scala delle distanze in miglia nautiche tracciata sulla carta marina, secondo la consuetudine del tempo, è legittimamente trasferibile sul mappamondo, permettendoci di misurare la grandezza del mondo allora conosciuto. Il mondo rappresentato da Fra Mauro risulta avere un diametro di circa 11.500 km, ovvero una circonferenza di circa 36.000 km, un dato che si colloca a metà tra i 33.000 km di Tolomeo (II secolo) e i 40.000 di Eratostene (III secolo a.C.).

Il mappamondo di Fra Mauro è stato realizzato nel monastero camaldolese di San Michele in Isola, a Venezia, verso il 1450, rappresenta un ponte tra le conoscenze geografiche medievali e i progetti di esplorazione e commerciali che avrebbero portato pochi decenni più tardi alla scoperta del Nuovo Mondo e alla circumnavigazione dell’Africa. Nel 1942 il governo italiano voleva presentarlo all’Esposizione Universale di Roma come esempio eloquente del contributo italico alle grandi esplorazioni geografiche, e per quella occasione ne fece eseguire una riproduzione facsimile che oggi fa bella mostra tra le collezioni del Museo Galileo. Dipinto e istoriato con colori vivacissimi, il lavoro di Fra Mauro è inscritto in un cerchio di circa due metri di diametro. La rappresentazione geografica è arricchita da oltre tremila cartigli, moltissimi toponimi e centinaia di immagini di città, templi, strade, navi, oltre a un bellissimo paradiso terrestre miniato da Leonardo Bellini. Fra Mauro delinea l’immagine del mondo appena precedente alle navigazioni dei Portoghesi e degli Spagnoli, integrando la Geografia di Tolomeo (ca. 100 - ca. 175 d.C.) con i racconti di viaggio di Marco Polo (1254-1324) e Niccolò de’ Conti (1395-1469). L’ecumene antica si espande verso oriente fino al Giappone e verso sud fino alle latitudini più meridionali dell’Africa che, sebbene non completata, lascia intravedere chiaramente la possibilità della sua circumnavigazione. Oltre ad aver immaginato e definito la possibilità concreta di congiungere il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, circumnavigando l’Africa in un’unica immensa rotta, Fra Mauro disegnò una straordinaria e dettagliatissima rappresentazione delle regioni interne dell’Africa. Quella dell’Etiopia, in particolare, rimase insuperata per centinaia d’anni. Fra Mauro si avvalse di carte geografiche che ricevette da monaci etiopi giunti a Venezia, probabilmente per partecipare al Concilio di Firenze (1439-1440), raccogliendone i racconti e le testimonianze. Basandosi su queste notizie raffigurò i regni etiopi ben oltre le latitudini ritenute abitabili da Tolomeo.

Dalla bottega di Fra Mauro proviene anche una bellissima carta marina, oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana, che si distingue dalla produzione cartografica nautica del tempo per la ricchezza dei contenuti cosmografici. Non solo i cartigli la accomunano al mappamondo veneziano ma anche il disegno delle coste del Mediterraneo, che è del tutto coincidente, anche nelle dimensioni. Le due mappe sono perfettamente sovrapponibili, tanto che la scala delle distanze in miglia nautiche tracciata sulla carta marina, secondo la consuetudine del tempo, è legittimamente trasferibile sul mappamondo, permettendoci di misurare la grandezza del mondo allora conosciuto. Il mondo rappresentato da Fra Mauro risulta avere un diametro di circa 11.500 km, ovvero una circonferenza di circa 36.000 km, un dato che si colloca a metà tra i 33.000 km di Tolomeo (II secolo) e i 40.000 di Eratostene (III secolo a.C.). L'edizione digitale del mappamondo, un progetto FISR finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca, è stata curata da Filippo Camerota (Museo Galileo di Firenze) e Angelo Cattaneo (CNR) grazie alla collaborazione istituzionale tra il Museo Galileo, la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e la Nanyang Technological University di Singapore, ed è stato reso possibile grazie a un progetto FISR finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. la Mappa virtuale è stata presentata a Venezia in occasione dell'apertura al pubblico di una nuova ala museale della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (Ridotti dei Procuratori), all'interno della quale spicca il nuovo allestimento del Mappamondo di Fra Mauro e altri preziosi cimeli cartografici.


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a cura della redazione, 19 marzo

Una collana ad anello d'oro, unica nel suo genere, è stata scoperta su un piccolo promontorio che si protende nella palude intorno a Ilsted, nel sud della Danimarca. Il promontorio è circondato su tre lati da zone umide e offre a malapena lo spazio per un comune podere dell'età del ferro germanico (400-550 d.C.). Secondo gli studiosi ci sono indicazioni che il sito abbia avuto una funzione diversa rispetto a una normale fattoria. Ma più indagini in loco devono determinarlo. Dalla Danimarca si conoscono solo una decina di collane simili. Quella di Ilsted, però, risulta essere abbastanza insolita, sia per la piastra saldata sul suo retro e l'ampio fregio con sottili fili d'oro, sia per il luogo del suo ritrovamento. 

La collana pesa  446 grammi, una frazione sotto una libbra, ed è larga 20 centimetri nel punto più largo. È costituita da un lungo pezzo d'oro a forma di bastoncino ripiegato su se stesso alle estremità per creare una forma ad anello. Le estremità si sovrappongono per circa 1/3 della lunghezza della collana e una placca d'oro è saldata sul retro per creare una terza tela. Le estremità sovrapposte dell'asta sono decorate con una depressione a forma di mezzaluna impressa nell'oro. La decorazione è così meticolosamente dettagliata che le forme a mezzaluna sui due anelli sono leggermente diverse: le mezzelune sull'anello esterno hanno otto avvallamenti decorativi al loro interno, le mezzelune su quelli interni ne hanno sei. La placca d'oro ha sei fili d'oro a coste nella parte inferiore, intrecciati insieme a due a due per creare un effetto chevron. Un filo d'oro attorcigliato a spirale scorre al centro della treccia.In Danimarca sono state trovate solo dieci collane d'oro comparabili con decorazioni stampate, e questa è di gran lunga la più elaborata.

Precedenti esempi di "anelli da collo" di questo periodo sono stati trovati in coppia. Questo è l'unico esemplare con una piastra saldata con intricate decorazioni a filo. È stato scoperto con il metal detector da Dan Christensen nell'ottobre 2021. Christensen lavora come esploratore archeologico per il Museo dello Jutland sudoccidentale. Nella settimana successiva alla scoperta, l'intero campo è stato scansionato per verificare se ci fossero altri oggetti preziosi, disseminati nell'area. 

Non è emerso nulla. Un successivo scavo del sito ha rivelato prove di un insediamento sotto un sottile strato di terreno arato, compresi i fori dei pali portanti del tetto di più case lunghe a tre navate datate tra il 300 e il 600 d.C.. La collana è stato trovata all'interno di una delle case. Gli archeologi ritengono che sia stato sepolto dove è stato trovato. Questo è un contesto insolito per oggetti simili, poiché la maggior parte di essi è stata trovata nelle zone umide dove venivano depositati come offerte votive agli Dei. Il sito del ritrovamento si trova su un promontorio circondato da paludi su tre lati. Il fatto che questa collana sia stata sepolta all'interno di una casa, quando le zone umide erano disponibili a pochi passi in ogni direzione, suggerisce che fosse stata deliberatamente nascosta per tenerla al sicuro durante un periodo di pericolo o agitazione, ma il proprietario non è mai stato in grado di recuperarlo.


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a cura della redazione, 17 marzo

Una matrice in bronzo inedita e sconosciuta di San Giorgio che uccide il drago è stata scoperta nel castello reale di Villers-Cotterêts, nel nord della Francia. L'armatura del cavaliere (con l'uso di un elmo chiuso "da giostra") fa risalire il misterioso sigillo all'inizio del XV secolo. Non è elencato in nessun archivio però. Il castello fu costruito nel 1528. La sua più grande fama deriva dall'essere stato il luogo in cui il re Francesco I firmò l'Ordinanza di Villers-Cotterêts, l'editto che sostituì il latino con il francese in tutti gli atti ufficiali di legge e di governo, in agosto del 1539. È la più antica legge francese ancora in vigore nei tribunali francesi oggi. Gli archeologi stanno scavando nella tenuta reale dal 2020. Il sigillo è stato scoperto in una sacca di carbone in una stanza nell'ala nord del castello. Le matrici dei sigilli erano di grande importanza nel Medioevo, unico mezzo per confermare l'autenticità di una firma, e come tali venivano abitualmente distrutte o seppellite con il proprietario dopo la morte. Il fatto che uno venisse gettato nella brace è stato quasi certamente perso per caso, forse da qualcuno che si scaldava davanti a un caminetto, ed è stato inavvertitamente scartato con le ceneri dal personale. 

La matrice del sigillo è circolare con un supporto traforato sul retro da cui il sigillo potrebbe essere indossato su una catena attorno al collo o legato a una cintura. È cavo inciso sul dritto con un cavaliere a cavallo in armatura a piastre complete. Sotto le gambe del cavallo impennato c'è un drago. È delimitato da un bordo bordato e con la scritta "IP PRI/EUR / DEVILLERS / LESM / OINE". L'iscrizione indica che il sigillo apparteneva al priore del monastero di Saint-Georges, a Villers-les-Moines, dipendente dall'abbazia di-la-Chaise-Dieu (in Auvergne). Situato a circa 1 km a nord-est del castello di Villers-Cotterêts, questo priorato è scarsamente documentato. Fu trasformato in un convento benedettino (Saint-Rémy-Saint-Georges) nel XVII secolo. 

Di questo priorato si sa molto poco, il che rende la scoperta del sigillo del priore ancora più storicamente significativa. Qualche curiosità sui sigilli: sono l'impronta, solitamente su cera, di immagini e/o caratteri incisi in un oggetto di pietra o bronzo chiamato matrice (per estensione, il termine designa anche questa matrice). Apparendo in Mesopotamia nel VII millennio, il sigillo precede leggermente la scrittura. In Francia fu ripreso dall'alto medioevo dai sovrani Merovingi e divenne un diritto sovrano. A partire dal X secolo questo monopolio regio crollò nel tempo a vantaggio dei vescovati, dei principi, del ceto signorile e delle città. Nel XIII secolo, il sigillo era ovunque nella società medievale. Nel Medioevo era l'unico mezzo per autenticare un documento, cristallizzando sulla loro piccola superficie aspirazioni politiche e sociali, modalità di rappresentanza, usi diplomatici e giuridici ma anche pratiche antropologiche. Poche matrici di sigillo sono sopravvissute: alla morte del detentore del sigillo la matrice veniva rotta, fusa o, più raramente, seppellita con il suo proprietario.


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a cura della redazione, 14 marzo

Una bara antropoide di piombo è stata appena scoperta all'incrocio del transetto di Notre-Dame di Parigi. Gli archeologi dell'Istituto Nazionale per la Ricerca Archeologica Preventiva (INRAP), incaricati di scavare il sito prima dell'inizio dei lavori di restauro dopo il violento incendio che aveva devastato la cattedrale il 15 aprile 2019, hanno portato alla luce un vecchio sarcofago sotto la navata dell'edificio. La prima analisi dei resti contenuti nel livello del terrapieno che lo sovrasta indica una datazione presunta della sepoltura intorno al XIV secolo. Per il momento non sappiamo chi riposi nella bara. 

Gli archeologi hanno portato alla luce il sarcofago nel cuore stesso della cattedrale, dove si intersecano il transetto e la navata, quindi l'individuo sepolto lì deve essere stato qualcuno di importante, probabilmente un dignitario della chiesa. Notre-Dame fu l'ultima dimora di diversi personaggi di spicco, ma questa è la prima volta che viene trovato un sarcofago intatto ben conservato.Il sarcofago è stato trovato al centro di una rete di tubi di riscaldamento in muratura del XIX secolo. Una mini telecamera endoscopica infilata nel sarcofago ha confermato che il contenuto è intatto. Si possono intravedere pezzi di stoffa, capelli e soprattutto un cuscino di foglie in cima alla testa, un fenomeno noto quando venivano seppelliti i leader religiosi.

Secondo gli studiosi, il fatto che questi elementi vegetali siano ancora all'interno significa che il corpo è in un ottimo stato di conservazione. La sua scoperta aiuterà a migliorare la comprensione delle pratiche funerarie nel Medioevo. A pochi metri dal sarcofago, ai piedi del coro, gli archeologi hanno scoperto i resti spezzati di un antico paravento, il tramezzo tra il presbiterio e la navata che era una caratteristica comune nelle chiese del tardo medioevo. Il paravento di Notre Dame era scolpito nella pietra e presentava numerose statue dipinte con colori vivaci. 

Fu costruito nel 1230 e rimase in vigore fino all'inizio del XVIII secolo, anche se i paraventi caddero in disgrazia a metà del XVI, quando il Concilio di Trento richiese che la Messa fosse resa più accessibile alla congregazione. La pesante barriera fisica che bloccava la vista dell'altare da parte dei fedeli fu allora eliminata. Nonostante la demolizione, gli archeologi hanno trovato numerosi frammenti di pietra, tra cui la testa di un uomo barbuto, accenni vegetali e due mani giunte.


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a cura della redazione, 12 marzo

Chi e perché più di 12.000 anni fa, ritrasse una stupefacente gamma di bestie dell'era glaciale? Bradipi giganteschi delle dimensioni di un'auto, enormi erbivori, elefanti preistorici e un animale simile a un cervo con un muso allungato. Questi giganti estinti sono tra i molti animali immortalati in un fregio di pitture rupestri lungo 13 chilometri. Siamo a Serranía de la Lindosa, nella foresta pluviale amazzonica colombiana. Un nuovo studio, pubblicato lunedì sulla rivista Philosophical Transactions of the Royal Society, ci parla di arte creata da alcuni dei primi esseri umani a vivere nell'attuale Colombia centro-meridionale. Jose Iriarte, professore presso il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Exeter (Regno Unito), pensa che il murale sia stato dipinto nel corso di secoli, se non di millenni, e potrebbe rappresentare l'arrivo degli umani in Sud America, l'ultima regione ad essere colonizzata dall'Homo sapiens mentre si diffondevano in tutto il mondo dall'Africa, loro luogo di origine. 

Questi pionieri del nord avrebbero affrontato animali sconosciuti in un paesaggio sconosciuto. Iriate suggerisce che gli esseri umani moderni in migrazione avrebbero potuto incontrare una tale megafauna dell'era glaciale durante il loro viaggio in Sud America. Tra gli animali raffigurati spiccano un gomphothere (una creatura simile a un elefante con la testa a cupola e le orecchie svasate), un lignaggio estinto di cavallo con un collo spesso, un enorme camelide o lama, e un ungulato a tre dita con un tronco. Sebbene i pigmenti rossi utilizzati per realizzare l'arte rupestre non siano stati ancora datati direttamente, Iriarte ha affermato che i frammenti di ocra trovati negli strati di sedimenti durante gli scavi del terreno sotto le pareti rocciose verticali dipinte risalgono a 12.600 anni fa. Se un agente legante contenente carbonio è stato aggiunto all'ocra per creare i dipinti, i ricercatori potrebbero essere in grado di datare direttamente l'arte rupestre.


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a cura della redazione, 9 marzo

Il 2022 continua a regalarci scenari e premonizioni apocalittiche. Sessho-seki la “pietra assassina” che, secondo una leggenda giapponese, custodirebbe lo spirito della mitica volpe a nove code si è letteralmente schiusa come un gigantesco uovo. Lo ha scoperto una ragazza, sabato scorso, recandosi in visita al tempio sulle pendici del monte Nasu. Qui il fiume Sanzu e centinaia di statue Jizu adornano il sito. 

Un’importante tradizione dell’area, nonché un tassello fondamentale del grande lignaggio buddista della cultura nipponica. Quando si è rotta la pietra? A fine dicembre, a detta di tutti i pellegrini, era ancora integra. Incredibile coincidenza il 19 febbraio scorso la fotografa giapponese Maru sul suo profilo, @marupi11y, aveva fatto notare quanto possa sembrare magico il mote Fuji se fotografato al momento giusto, postando un tramonto da scenario apocalittico.  Maru aveva catturato una gigantesca fenice scura e infuocata che vorticava sopra la montagna! Era il demone che aveva rotto il sigillo? Pur essendo una pareidolia, quello immortalato nello scatto della fotografa giapponese, somiglia a HAKUMEN NO MONO. Un demone della mitologia orientale, sia cinese sia giapponese, che è stato spesso riproposto in manga e anime di successo, proprio in Giappone. Forse il più importante è USHIO & TORA. Uno youkai, una bestia spirituale, considerata sacra anche in Cina. Proprio un antico documento cinese, il Shan Hai Jing, il "Classico delle Montagne e dei Mari", si dice sia la fonte più antica di questa creatura soprannaturale dalla duplice origine tra Fuoco e Acqua.

In Giappone la notizia della rottura della pietra è diventata virale sui social: "Sono venuta da sola a Sessho-seki, il luogo della leggendaria volpe a nove code. La grossa roccia che doveva essere avvolta da una corda è quella, ma è spaccata a metà e anche la corda è stata staccata. Sembra un manga, ma non lo è, il sigillo è stato rotto...  mi sembra di aver visto qualcosa che non avrei dovuto vedere", ha scritto la ragazza su Twitter nel post che ha attirato già 182.991 like. In molti credono che lo spirito sia resuscitato dopo più di 1000 anni. In realtà la roccia avvolta dal misterioso sigillo sarebbe lì da quando, 637 anni fa, l'abate del tempio di Yuanxian, il monaco Xuanweng, purificando l'antica pietra sacra che custodiva il demone, la sgretolò in nove pezzi spargendoli per tutto il Giappone. 

Quella che avrebbe rotto il sigillo, dunque, è solo una delle nove code del demone vendicatore. E le altre? La spiegazione ufficiale data dai media locali è che già diversi anni fa nella roccia erano comparse delle crepe e forse proprio queste hanno permesso all’acqua piovana di filtrare all’interno e indebolirne la struttura. Registrata come sito storico nel 1957, la pietra ha ispirato un’opera teatrale Noh, un romanzo, un film anime ed è stata menzionata in una delle maggiori opere della letteratura giapponese del periodo Edo, "Lo stretto sentiero verso il profondo Nord" del poeta Matsuo Bashō, un haibun (un componimento costituito da parti in prosa intercalate da haiku), scritto sotto forma di diario, che narra un epico e pericoloso viaggio a piedi compiuto da Bashō attraverso il Giappone di fine XVII secolo.


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Gli ultimi sondaggi effettuati a Rapa Nui mostrano che gli insediamenti e i siti dove sono ubicati i giganteschi Moai di pietra sono marcatori di sofisticate tecnologie edificate anticamente per attingere a sorgenti d’acqua potabile sotto il mare…

Gli ultimi sondaggi effettuati a Rapa Nui mostrano che i Moai sono marcatori di misteriose strutture edificate anticamente sopra sorgenti artificiali di acqua rituale…


a cura della redazione, 4 marzo

Gli scienziati hanno finalmente risolto il mistero di come gli abitanti di Rapa Nui potessero dissetarsi bevendo direttamente dal mare. Lo riportavano i resoconti degli europei che nel XIX secolo arrivarono per la prima volta sull’Isola di Pasqua. Qui non ci sono sorgenti visibili, né fiumi o torrenti, ma solo tre piccoli laghi craterici, che possono prosciugarsi durante i periodi di siccità. Ciò significa che anticamente l'acqua dolce, su questo piccolo punto di terra nel Pacifico, era scarsa. I sondaggi effettuati sul terreno hanno dimostrato, però, che gli insediamenti del popolo che costruì i Moai, e le piattaforme su cui erano collocate le gigantesche statue monolitiche, si trovano quasi tutti sulla costa, vicino a fonti nascoste, che a quanto pare richiesero la costruzione di "dighe" sottomarine, presumibilmente molto più antiche dei primi coloni. Chi e come le abbia costruite non è ancora chiaro. In un nuovo studio, pubblicato a metà del 2021, rimasto poco noto, tali fonti artificiali di acqua dolce sono descritte come il fulcro della vita e della cultura delle comunità di Rapa Nui, non solo per sopravvivere a lunghi periodi di siccità. Erano luoghi sacri ancestrali.

LO SAPEVI CHE - Nella zona dell'Hanga Ho'onu troviamo due impressionanti ahu, Ahu Heki'i e Ahu Te Pito Kura, entrambi circondati da estesi insediamenti umani e da evidenti luoghi rituali. Ahu Te Pito Kura è il luogo del più grande moai. Il suo pukao (cappello rosso) è il più grande di tutte le sculture presenti sull'isola. Il moai ha un’altezza di quasi 10 metri e probabilmente pesa circa 80 tonnellate. Il pukao ha dimensioni altrettanto impressionanti, 2 metri di altezza e un possibile peso di 11,5 tonnellate. Quello di Hekii misura invece circa 5 metri di altezza. La modellazione cronologica bayesiana indica che Ahu Heki’i fu eretto 70 anni dopo l'insediamento umano iniziale di Rapa Nui e le analisi del modello di insediamento mostrano un'occupazione continua della regione di Hanga Ho'onu durante tutto il pre-contatto e all'inizio del periodo storico, suggerendo fortemente una lunga associazione temporale tra attività domestica e rituale adiacente a una sorgente di acqua dolce.

Questa stranezza della natura era stata aggiunta all’elenco dei misteri locali. Perché scrivere che "bevevano dal mare"? In un primo momento gli studiosi hanno pensato che si riferissero al ciclo dell'acqua e all'acqua piovana raccolta dai taheta, piccoli bacini di pietra scolpita sparsi in tutta l'isola.  Non riuscivano a spiegarsi, però, perché mano a mano che si sale, lontano dalla costa, se ne trovano sempre meno? Senza considerare che questi presunti bacini di raccolta dell'acqua dal cielo erano inaffidabili come fonti permanenti, date la variabilità delle precipitazioni e gli alti tassi di evapotraspirazione. Durante le loro indagini, i ricercatori hanno scoperto che l’approvvigionamento di acqua potabile proveniva da “infiltrazioni costiere” d’acqua dolce, in perfetta corrispondenza con i siti cultuali dell'isola cilena, che si trova nel punto più sudorientale del Triangolo Polinesiano in Oceania.

IL SIMBOLISMO DELL'ACQUA

 La nozione di acque primordiali, di oceano delle origini è pressoché universale. Si trova persino in Polinesia e la maggior parte dei popoli australoasiatici localizza nell’acqua il potere cosmico. Si rileva con frequenza nel mito dell’animale che si tuffa, come il jabali indu che riporta un po’ di terra in superficie. Origine e veicolo di tutta la vita l'acqua è saggezza e in certe allegorie tantriche rappresenta il Prana o soffio vitale. Sul piano fisico, perché anche dono del Cielo, è un simbolo universale di fertilità. Come elemento liquido, instabile, ricettivo e dissolvente, circola, bagna e feconda. I suoi significati simbolici sono molteplici, ma possono ridursi a tre temi principali: fonte di vita, mezzo di purificazione e centro di rigenerazione. Le acque, come massa indifferenziata, rappresentano l’infinita varietà del possibile, contenente tutto ciò che è virtuale, informale, il nucleo germinale delle cose, ogni premessa dello sviluppo. Immergersi per riemergere senza dissolversi in esse, salvi da una morte simbolica, significa tornare alla fonte originaria ricorrere all’immenso deposito di potenziale da cui estrarre nuove forze. In quest'ottica le sorgenti di Rapa Nui rappresentano le fonti della Linfa Primordiale che riemerge dal cuore della Terra attraverso le sue vene con le quali ridistribuisce l'”acqua di vita”, la linfa divina, dolce all’inizio, intorbidata da tutte le scorie e da tutti i detriti, fino a divenire amara e salata quando forma la massa oceanica che circonda l'isola.

Incredibilmente, le prove archeologiche hanno dimostrano l'uso di tecniche di gestione per intrappolare le acque dolci sotterranee prima che si mescolino con l'acqua di mare. Questo è meglio documentato attraverso la costruzione di "pozzi" noti come puna, scavati, a tratti lastricati e talvolta murati.

LO SAPEVI CHE - Rapa Nui e le sorgenti d'acqua dolce citate nei resoconti storici (DEM proveniente da https://earthexplorer.usgs.gov) - Nel suo primo lavoro etnografico, “La Tierra de Hotu Matu’a: Historia, Etnologia, y Lengua de Isla de Pascua”, Sebastian Englert rilevava l’esistenza di una grande ritenzione idrica caratteristica, ora distrutta, all’interno di Hanga Te’e che serviva a bloccare la miscelazione dell’acqua dolce con acqua salata. 

Con l’aiuto dei droni, gli studiosi hanno acquisito una comprensione più profonda di come la gente di Rapa Nui si garantisse tale approvvigionamento idrico. Gli antropologi hanno scoperto che la raccolta dell'acqua dolce avveniva prevalentemente dalle sacche di infiltrazioni costiere, e che erano state costruite vere e proprie "dighe sottomarine" nell’oceano per mantenere l’acqua dolce separata da quella marina, oltre a pozzi che la reindirizzavano dalla falda acquifera prima di raggiungere il mare. 

Per identificare le infiltrazioni costiere, gli studiosi hanno utilizzato la tecnologia dei droni con termocamere, una pratica utilizzata in studi simili in luoghi come le Hawaii. La ricerca con il telerilevameto, è stata guidata da Robert Di Napoli, del Dipartimento di Scienze Geologiche della Binghamton University di New York, in collaborazione con il Programma di Studi Ambientali del Dipartimento di Antropologia dell’Harpur College, e la Scuola di Antropologia dell’Università dell’Arizona. Secondo Di Napoli, l’acqua piovana dell’Isola di Pasqua affonda direttamente attraverso il substrato roccioso in una falda acquifera sotterranea, un corpo di roccia porosa o sedimento in cui si concentra l’acqua. Questa poi emerge lungo la costa sotto forma di “infiltrazioni costiere”, sacche di acqua dolce che gocciolano nell’oceano. 

Gli abitanti di Rapa Nui usavano anche fonti d'acqua interne come i laghi e i crateri. A Ava RangaUka e a Toroke Hau costruirono un bacino rivestito di pietra grande migliaia di metri quadri, probabilmente utilizzato per intrappolare il deflusso superficiale e il trabocco da Rano Aroi. Un'impresa tecnologica imponete, ma a destare la curiosità degli scienziati sono state alcune delle località prossime alla battigia, dove è stata rilevata una quantità inspiegabile di acqua "dolce" e fresca che esce dalle infiltrazioni. Come è possibile? Sorgenti nascoste che, come abbiamo detto all'inizio, sono state identificate in tutta l’isola, nonostante le condizioni asciutte dei laghi vulcanici. 

LO SAPEVI CHE - Lo stesso schema di associazione tra rituali, caratteristiche domestiche e sorgenti di acqua dolce si verifica a Te Ipu Pu e Te Peu, dove le immagini aeree mostrano un grande edificio (hare paenga) e giardini recintati (manavai). 

Da dove proviene allora quell'acqua dolce? Indagando, gli studiosi hanno scoperto che rimaneva nelle falde acquifere sotterranee per lunghi periodi di tempo prima di filtrare nell’oceano, grazie a strutture artificiali costruite anticamente. Da chi? Forse erano lì prima. I ricercatori pensano, comunque, che le statue siano legate a tali punti nevralgici per la sopravvivenza del popolo che le ha erette e che fossero anche dei marcatori che indicavano dove si trovava tale elemento, non solo indispensabile per la vita, ma legato ad antichi culti rituali. Un nuovo mistero ancora tutto da risolvere…


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Uno studio internazionale della Valle del Sado, in Portogallo, suggerisce che i popoli mesolitici europei potrebbero aver eseguito trattamenti come l’essiccazione attraverso la mummificazione già 8.000 anni fa...

Uno studio internazionale della Valle del Sado, in Portogallo, suggerisce che i popoli mesolitici europei potrebbero aver eseguito trattamenti come l’essiccazione attraverso la mummificazione già 8.000 anni fa…


a cura della redazione, 3 marzo

Fino ad ora, i casi più antichi di mummificazione intenzionale erano noti dai cacciatori-raccoglitori Chinchorro che vivevano nella regione costiera del deserto di Atacama nel nord del Cile circa 7.000 anni fa, tuttavia, la maggior parte delle mummie sopravvissute in tutto il mondo sono più recenti, databili tra pochi cento anni e fino a 4000 anni fa. Fotografie scoperte di recente dagli scavi degli anni ‘60 nella Valle del Sado hanno permesso agli archeologi di ricostruire le posizioni in cui furono sepolti i corpi, fornendo un’opportunità unica per saperne di più sui rituali funerari che si svolgevano 8.000 anni fa. 

Questa scoperta è stata fatta dai ricercatori in connessione con un’analisi di tombe del Mesolitico, Mesolitico, in Portogallo. I risultati dello studio, condotto in collaborazione tra l’Università di Uppsala, l’Università di Linnaeus e l’Università di Lisbona, sono stati pubblicati sull’European Journal of Archaeology. Lo studio a combinato archeologia e archeotanatologia, un metodo utilizzato per documentare e analizzare i resti umani, raffrontando la decomposizione umana con le osservazioni della distribuzione spaziale delle ossa, con la collaborazione del Forensic Anthropology Research Facility presso la Texas State University. Gli archeologi hanno così potuto ricostruire come il cadavere sia stato maneggiato dopo la morte e come sia stato sepolto, anche se sono trascorsi diversi millenni. L’analisi ha mostrato che alcuni corpi erano sepolti in posizioni estremamente flesse con le gambe piegate all’altezza delle ginocchia e posti davanti al petto. 

L’iperflessione degli arti, l’assenza di disarticolazione in parti significative dello scheletro e un rapido riempimento di sedimenti attorno alle ossa indicano, secondo gli studiosi, un processo di mummificazione. Durante la decomposizione, infatti, le ossa di solito si disarticolano in corrispondenza delle giunture deboli, come i piedi, ma nei casi studiati sono rimaste in posizione. I ricercatori propongono che questo schema di iperflessione e mancanza di disarticolazione potrebbe essere spiegato se il corpo non fosse stato deposto nella tomba come un cadavere fresco, ma in uno stato essiccato come un cadavere mummificato. “Questi sono reperti insoliti. Le mummie più famose al mondo sono significativamente più giovani e si stima che abbiano un’età compresa tra 4.000 e un paio di centinaia di anni. Ma possiamo dimostrare che i corpi venivano intenzionalmente trattati per essere essiccati e mummificati prima della sepoltura già nel Mesolitico. Tale forma di rituale di sepoltura non è mai stata dimostrata prima nell’età della pietra dei cacciatori europei”, afferma nel comunicato stampa Rita Peyroteo Stjerna, archeologa e ricercatrice dell’Università di Uppsala, che insieme a Liv Nilsson Stutz dell'Università di Linnaeus è la prima autrice dello studio. 

L’essiccazione non solo mantiene alcune di queste articolazioni altrimenti deboli, ma consente anche una forte flessione del corpo poiché l’intervallo di movimento aumenta quando il volume dei tessuti molli è minore. Poiché i corpi sono stati essiccati prima della sepoltura, c’è pochissimo o nessun sedimento presente tra le ossa e le articolazioni sono mantenute dal continuo riempimento del terreno circostante che sostiene le ossa e impedisce il collasso delle articolazioni. I ricercatori suggeriscono che i modelli osservati potrebbero essere il prodotto di un processo di mummificazione naturale guidato. La manipolazione del corpo durante la mummificazione sarebbe avvenuta per un lungo periodo di tempo, durante il quale il corpo si sarebbe gradualmente essiccato per mantenere la sua integrità corporea e contemporaneamente si sarebbe contratto legandosi con una corda o bende per comprimerlo nella posizione desiderata. 

Al termine del processo, il corpo sarebbe stato più facile da trasportare, essendo più contratto e significativamente più leggero del cadavere fresco, assicurando che fosse sepolto mantenendo il suo aspetto e l’integrità anatomica. Se la mummificazione in Europa è più antica di quanto suggerito in precedenza, emerge una serie di intuizioni relative alle pratiche funebri delle comunità mesolitiche, inclusa una preoccupazione centrale per il mantenimento dell’integrità del corpo e la sua trasformazione fisica da cadavere a mummia curata. Queste pratiche sottolineerebbero anche il significato dei luoghi di sepoltura e l’importanza di portare i morti in questi luoghi in modo da contenere e proteggere il corpo, seguendo principi culturalmente regolati, evidenziando il significato sia del corpo che del luogo di sepoltura in Portogallo mesolitico 8.000 anni fa.


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Da tempo si pensava che il sito megalitico fungesse da calendario antico, dato il suo allineamento con i solstizi. Ora, la ricerca ha identificato come potrebbe aver funzionato, individuando connessioni con l'Antico Egitto…

Da tempo si pensava che il sito megalitico fungesse da calendario antico, dato il suo allineamento con i solstizi. Ora, la ricerca ha identificato come potrebbe aver funzionato, individuando connessioni con l'Antico Egitto…   


a cura della redazione, 2 marzo 

Nuove scoperte sulla storia del gigantesco cerchio di pietre britannico, insieme all’analisi di altri antichi sistemi calendariali, hanno spinto il professor Timothy Darvill guardare Stonehenge in una nuova ottica. La sua analisi, pubblicata sulla rivista Antiquity, ha concluso che il sito è stato progettato come un calendario solare e non lunare, come ipotizzato in precedenza. “Il chiaro allineamento solstiziale di Stonehenge suggerivano che il cerchio di sarsen rifletta un mese di 30 giorni - afferma Darvill in un comunicato stampa della Bournemouth University - ma le nuove scoperte hanno messo a fuoco la questione e indicano che il sito era un calendario basato su un anno solare tropicale di 365,25 giorni”. 

Secondo Darvill, i 360 giorni dei 12 mesi che compongono l'anno erano seguiti da cinque giorni epagomenali, segnati dai cinque massicci "triliti" - coppie di sarsen sormontate da una terza pietra dell'architrave - all'interno del cerchio principale (due dei montanti dei triliti e due degli architravi sono ora mancanti). Ricerche recenti, infatti, avevano dimostrato che i sarsen di Stonehenge erano stati aggiunti durante la fase di costruzione intorno al 2500 a.C.. Provenivano dalla stessa zona e successivamente sono rimasti nella formazione. Ciò indica che il luogo fu lavorato come una singola unità. In quanto tale, Darvill ha analizzato queste pietre, esaminandone la numerologia e confrontandole con altri calendari conosciuti di questo periodo. Il professore ha identificato un calendario solare nella loro disposizione, suggerendo che servissero come rappresentazione fisica dell’anno, che aiutava gli antichi abitanti del Wiltshire a tenere traccia dei giorni, delle settimane e dei mesi per celebrare precisi rituali e cerimonie, come nell'Antico Egitto. “Il calendario proposto funziona in modo molto semplice. Ognuna delle 30 pietre nel cerchio di sarsen rappresenta un giorno all’interno di un mese, diviso a sua volta in tre settimane ciascuna di 10 giorni”, afferma lo studioso, osservando che le pietre distintive segnano l'inizio di ogni settimana. Inoltre, per corrispondere all’anno solare erano necessari un mese intercalare di cinque giorni e un giorno bisestile ogni quattro anni. 

LO SAPEVI CHEIncastonato nell'impronta e nell'architettura di tutti e tre gli elementi sarsen c'è un unico asse astronomico coerente: una linea orientata da nord-est a sud-ovest. Questa linea unisce i punti degli orizzonti localmente visibili dove il sole sorge durante il solstizio d'estate a nord-est e tramonta durante il solstizio d'inverno a sud-ovest. Questo è l'unico grande allineamento incorporato nell'architettura di Stonehenge, sebbene il posizionamento del trilito sud-occidentale incorpora un asse solstiziale secondario strettamente correlato basato sulle posizioni dell'orizzonte del sole di metà inverno che sorge a sud-est e del sole di mezza estate che tramonta a nord-ovest.

Il mese intercalare, probabilmente dedicato alle divinità del sito, è rappresentato dai cinque triliti al centro - spiega il ricercatore - le quattro Station Stones al di fuori del circolo sarsen forniscono marcatori per la tacca fino a un salto del giorno”. In quanto tali, i solstizi d’inverno e d‘estate sarebbero incorniciati dalle stesse coppie di pietre ogni anno. Uno dei triliti inquadra anche il solstizio d’inverno, indicando che potrebbe essere stato legato al nuovo anno. Questo allineamento solstiziale aiuta a calibrare il calendario: eventuali errori nel conteggio dei giorni sarebbero facilmente rilevabili, poiché il sole sarebbe risultato nel posto sbagliato in corrispondenza dei solstizi. 

LO SAPEVI CHE - All'interno del circolo di sarsen ci sono cinque triliti disposti a forma di ferro di cavallo che si aprono a nord-est. Tutte le pietre sopravvivono sul posto, anche se alcune sono cadute. Il trilito sud-occidentale è il più alto e il più grande; le altre si riducono in altezza verso nord-est, dando risalto sia verticale che orizzontale al trilito sud-occidentale. Tutte le pietre del ferro di cavallo sono state modellate e rifinite, con incastri a tenone che fissano gli architravi ai montanti.

Un tale calendario, con settimane di 10 giorni e mesi extra, può sembrare insolito oggi. Tuttavia, calendari come questo furono adottati da molte culture durante lo stesso periodo. “Un calendario solare simile fu sviluppato nel Mediterraneo orientale nei secoli successivi al 3000 a.C. ed è stato adottato in Egitto come calendario civile intorno al 2700 ed è stato ampiamente utilizzato all’inizio dell'Antico Regno intorno al 2600 a.C.”, ricorda Darvill. Ciò solleva la possibilità che il calendario tracciato da Stonehenge possa derivare dall’influenza di una di queste culture. I ritrovamenti nelle vicinanze suggeriscono tali connessioni: il vicino arciere di Amesbury, sepolto nelle vicinanze nello stesso periodo, è nato sulle Alpi e si è trasferito in Gran Bretagna da adolescente. Il professor Darvill spera che la ricerca futura possa far luce su queste possibilità. DNA antico e reperti archeologici potrebbero darne la prova definitiva. Trovare un calendario solare rappresentato nell’architettura di Stonehenge apre un modo completamente nuovo di vedere il monumento come un "luogo per i vivi", un luogo in cui i tempi delle cerimonie erano collegati al tessuto stesso del universo e movimenti celesti, che testimonia l'esistenza di una Tradizione unica.


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