Scoperte le sepolture più occidentali dell'ancestrale cultura nomade. Al loro interno le ossa di uomini più alti della media, ricoperte da una tintura rossa, sepolte 5.000 anni fa...

Scoperte le sepolture più occidentali dell'ancestrale cultura nomade. Al loro interno le ossa di uomini più alti della media, ricoperte da una tintura rossa, sepolte 5.000 anni fa...


a cura della redazione, 1 marzo 

Camere tombali in legno sono state trovate in due tumuli nel nord della Serbia da un team di ricercatori dell’Accademia delle Scienze polacca. Siamo nella regione di Šajkaška, nel distretto autonomo della Vojvodina, sul basso Tisa, al confine occidentale della steppa eurasiatica. I tumuli sono inscritti in un grande cerchio che misura 40 metri di diametro, e hanno un’altezza di 3-4 metri. Entrambi sembra siano stati costruiti in due fasi. Inizialmente, quando furono seppelliti i primi defunti circa 5.000 anni fa (3000-2900 a.C.), erano molto più piccoli. Dopo circa 100-200 anni i loro diametri e le loro altezze furono notevolmente aumentati, con l’aggiunta di un’ulteriore sepoltura. 

La campagna di scavi, in collaborazione con il Museo della Vojvodina a Novi Sad, è iniziata tra il 2016 e il 2018. Solo ora, però, sono stati ottenuti i primi risultati scientifici dalle analisi. Gli archeologi credono che le persone sepolte qui fossero leader della comunità. Alcune delle tombe, infatti, erano riccamente attrezzate con armi, ornamenti e piatti decorati. La catterstica che ha attirato l'attenzione degli studiosi è stata la colorazione rossa di alcune ossa, come spiega su Science in Poland Piotr Włodarczak, dell’Istituto di Archeologia ed Etnologia dell’ente polacco. Secondo l’esperto, in quel periodo era un colore sacro utilizzato durante i riti funebri. I resti appartenevano a un uomo alto oltre un metro e ottanta. Sia l’uso dell’ocra che l’altezza superiore alla media dei defunti indicano che non si tratta di autoctoni. Chi erano?

Gli uomini che vivevano in questa parte dell’Europa, a cavallo tra il IV e il III millennio a.C., erano generalmente alti circa un metro e sessanta. L’analisi genetica dei resti ossei suggerisce che i defunti provenivano dall’Est. Non è chiaro se fossero appena arrivati o fossero i discendenti diretti dei nuovi arrivati. Sono stati prelevati anche campioni per le analisi isotopiche, che hanno determinato una dieta alimentare a base di carne, tipica di una comunità dedita all’allevamento. Poiché il rituale che prevede l’uso dell’ocra e la sepoltura in grandi tumuli sono entrambi associati alle comunità che vivono nelle steppe dell’Europa orientale, Włodarczak e i suoi colleghi ritengono che tale combinazione sia assimilabile alle pratiche di sepoltura degli Yamnaya, un popolo nomade proveniente dalle steppe meridionali dell’odierna Russia e Ucraina, che secondo gli studiosi mutarono significativamente la situazione culturale dell’Europa, proprio in quel periodo. Allora i rituali funebri e il metodo di fabbricazione dei vasi di ceramica cambiarono e iniziarono ad emergere i centri e le élite proto-statali dell’età del bronzo, di cui gli enormi tumuli sono espressione.

Si tratta della quarta tribù ancestrale che ha contribuito al moderno pool genetico europeo.  Una ricerca, pubblicata nel 2015 su Nature Communications, mostra che gli europei siano una miscela di tre principali popolazioni (cacciatori indigeni, agricoltori mediorientali e una popolazione arrivata dall'est nell'età del bronzo), cui si è aggiunto il DNA di antichi resti recuperati nel Caucaso di una quarta popolazione che si sarebbe nutrita del mix. Il primo strato di ascendenza europea, i cacciatori-raccoglitori indigeni, entrarono in Europa prima dell'era glaciale, 40.000 anni fa, 33.000 anni dopo furono travolti da una migrazione di un popolo proveniente dal Medio Oriente, che introdusse l'agricoltura. Circa 2.000 anni dopo, nel 5000 a.C., i pastori chiamati Yamnaya entrarono in Europa dalla regione della steppa orientale. Tale popolo ha avuto un impatto importante sulla genetica dei popoli settentrionale e centrali. Alcune popolazioni, come i norvegesi, oggi devono circa il 50% dei loro antenati a questi pastori della steppa. Ma gli Yamnaya erano essi stessi una popolazione mista. Circa la metà dei loro antenati proveniva da un gruppo gemello dei cacciatori-raccoglitori che abitavano l'Europa prima dell'avvento dell'agricoltura, mentre l'altra metà sembra provenire da una popolazione imparentata, ma notevolmente diversa dai migranti mediorientali che l'hanno introdotta. La loro vera origine resta un mistero...


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Con l’aiuto di tomografie ad alta risoluzione, gli scienziati gettano nuova luce sulla statuetta sacra di 30.000 anni fa, che potrebbe essere stata scolpita nel calcare oolitico della regione del Lago di Garda. Alcuni indizi la collegano però all'Est Europa…

Con l’aiuto di tomografie ad alta risoluzione, gli scienziati gettano nuova luce sulla statuetta sacra di 30.000 anni fa, che potrebbe essere stata scolpita nel calcare oolitico della regione del Lago di Garda. Alcuni indizi la collegano però all'Est Europa…


a cura della redazione, 28 febbraio

Quella della Bassa Austria non è una statuetta speciale solo per il design, ma anche per il materiale di cui è composta. Alta quasi 11 centimetri, è uno dei più importanti esempi di arte antica in Europa. Mentre altre Veneri sono solitamente realizzate in avorio o osso, a volte anche con pietre diverse, per la Venere di Willendorf è stata utilizzata l’oolite, una roccia che non si trova nei dintorni, ma che soprattutto è unica per tali oggetti di culto. La figura, trovata nel Wachau nel 1908, è oggi esposta al Museo di Storia Naturale di Vienna. Più di 100 anni dopo l’antropologo Gerhard Weber dell’Università di Vienna ha utilizzato un nuovo metodo per esaminare il suo interno: la tomografia microcomputerizzata. Lo studio è stato pubblicato su “Scientific Reports”. 

LO SAPEVI CHE - Tra le rappresentazioni femminili del Gravettiano vi sono tipologie sovraregionali come le statuine naturalistiche, ad esempio Lespugue, Willendorf e Kostenki, e rappresentazioni astratte che spesso combinano caratteristiche maschili e femminili, distribuite dalla Francia alla Russia.

Insieme a due geologi, Alexander Lukeneder e Mathias Harzhauser del Museo di Storia Naturale di Vienna, e al preistorico Walpurga Antl-Weiser, Weber ha procurato campioni comparativi dall’Austria e dall’Europa e li ha valutati. Un progetto complesso: sono stati prelevati, segati ed esaminati al microscopio campioni di roccia dalla Francia all’Ucraina orientale, dalla Germania alla Sicilia. L’elemento che ha aiutato i ricercatori a restringere la possibile fonte del calcare è uno dei frammenti di conchiglia nella figurina, datato al periodo giurassico. Confrontando le sue proprietà microscopiche con campioni raccolti in Austria e in altri luoghi in Europa, gli scienziati hanno scoperto che il materiale della Venere era statisticamente indistinguibile dai campioni prelevati dalla regione del Lago di Garda. Nel comunicato stampa diramato dall’Università di Vienna, Weber suggerisce che la statuetta abbia attraversato le Alpi per un lungo periodo mentre le persone viaggiavano lungo i fiumi in cerca di prede e di un clima adatto.

Attraverso diversi passaggi, gli scienziati hanno ottenuto immagini con una risoluzione fino a 11,5 micrometri, una qualità che altrimenti si vede solo al microscopio. La componente principale della Venere sarebbe oolite porosa, una roccia sedimentaria formata da grani sferici composti da strati concentrici. I nuclei dei milioni di ooidi (letteralmete "uova") che la compongono si erano dissolti. Questo implica che lo scultore abbia scelto un simile materiale 30.000 anni fa: era molto più facile lavorarlo. Gli scienziati hanno anche identificato un minuscolo residuo di conchiglia, lungo solo 2,5 millimetri, e lo hanno datato al periodo giurassico. Ciò ha escluso tutti gli altri potenziali depositi della roccia dell’era geologica del Miocene molto più tarda, come quelli nel vicino bacino di Vienna. Lo studio ha così rivelato sedimenti di diverse densità e dimensioni, resti di conchiglie e grossi grani ferrosi chiamati limoniti. Weber, ritiene che le cavità sulla superficie della statuetta siano apparse proprio quando si sono staccate durante l’intaglio, originando l’ombelico di Venere. 

Nessuno dei campioni entro un raggio di 200 chilometri da Willendorf corrispondeva nemmeno lontanamente. L’analisi ha mostrato che erano statisticamente indistinguibili dai campioni provenienti da Sega di Ala, una località nei pressi dell’importante sito paleolitico della Grotta di Fumane, vicino al Lago di Garda, nel nord Italia. Questo significa che Venere, o almeno il suo materiale, viaggiò dal sud delle Alpi verso il Danubio, a nord. Un viaggio che avrebbe potuto richiedere generazioni, sia attraverso la pianura pannonica sia attraverso le Alpi. Non è chiaro se ciò fosse possibile più di 30.000 anni fa: il sentiero lungo 730 chilometri lungo l’Adige, l’Inn e il Danubio è a 1.000 metri dal livello del mare, ad eccezione dei 35 chilometri del Lago di Resia. Il che suggerirebbe una diffusione di gruppi umani che aggiravano, o addirittura attraversavano, le Alpi nei tempi precedenti l’ultimo massimo glaciale. 

SCOPRI IL MONDO DI FENIX Il Mensile sui Misteri della Storia e del Sacro - MAPPE ©Kern, A. & Antl-Weiser, W. Venus 

Tuttavia, c'è un altro luogo interessante per l’origine della roccia. Si trova nell’Ucraina orientale, a più di 1.600 chilometri in linea d’aria da Willendorf. I campioni lì non si adattano chiaramente come quelli italiani, ma meglio di tutti gli altri. D’altronde le figurine di Venere trovate nella vicina Russia meridionale, anche se sono un po’ più “giovani”, sembrano molto simili alla Venere trovata in Austria. Il che indicherebbe un lungo periodo e diffusione a distanza di reperti culturali nel corso delle generazioni dall’Oriente all’Occidente. In ogni caso, i risultati suggeriscono una notevole mobilità dei gravettiani circa 30.000 anni fa.


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L'INAH annuncia l’interpretazione iconografica di un imponente rilievo rinvenuto nella zona archeologica della città sacra di Atzompa…

L'INAH annuncia l’interpretazione iconografica di un imponente rilievo rinvenuto nella zona archeologica della città sacra di Atzompa… 


a cura della redazione, 24 febbraio

I ricercatori dell’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico (INAH) hanno interpretato l’iconografia su un fregio in pietra calcarea e stucco in un complesso monumentale noto come “Casa del Sur” nel Messico meridionale. Il testo presenta glifi dell’iconografia zapoteca e mixteca, numeri e l’immagine di un quetzal che allude alla protezione soprannaturale e a un tempo senza tempo. Sono presenti anche figure di scimmie, giaguari e il quinconce, un disegno geometrico che simboleggia le quattro direzioni e il centro dell’Universo. 

Il potere religioso, politico e sociale che Atzompa ebbe nell’organizzazione della capitale zapoteca, Monte Albán, nel periodo tardo classico (600-900 d.C.), e gli importanti rapporti che instaurò con la regione mixteca, sono alcuni dei dettagli svelati nella recente interpretazione iconografica del grande fregio rinvenuto tre anni fa, in quel complesso monumentale nella regione di Oaxaca. Scoperta nella stagione di scavi 2018 dai membri del Progetto Archeologico Congiunto Monumentale di Atzompa, guidato dalla ricercatrice dell’INAH, Nelly Robles García, tale elemento architettonico è un esempio della scrittura zapoteca dell’epoca, elaborata in altorilievo su calcare e stucco. Secondo l’archeologo, il fregio, la cui lunghezza del segmento meglio conservato finora scoperto è di 15 metri - il che lo rende il più lungo testo scritto zapoteco esplorato e registrato nella valle - contiene una serie di glifi caratteristici dell’iconografia zapoteca e mixteca, tra cui quella dell’anno mixteco Lucertola (Chila). 

Per la posizione, sappiamo che si tratta di un messaggio o discorso di potere, associato alla funzione-uso dello spazio di questa residenza, un messaggio che si può percepire camminando lungo la strada che delimita la strada tra il Ballcourt principale del sito e della Piazza Cerimoniale A”, spiega Robles García nel comunicato stampa. Il ricercatore del Centro INAH di Oaxaca ha indicato che questo elemento è stato trovato incorniciato da doppie tavole scapolari sulle facciate Est e Nord della “Casa del Sur”. Gli zapotechi, sgomberando lo spazio, lo distrussero parzialmente e vi posero sopra una serie di stanze. Prima del suo abbandono depositarono anche una serie di vasi di grande formato e frammenti di urne, rinvenute sui pavimenti in stucco, forse con l’intento di demistificare gli spazi. Il fregio fa parte della penultima fase costruttiva della residenza, che è stata collocata intorno al periodo dell’occupazione Monte Albán IIIB-IV che, secondo la cronologia stabilita da Alfonso Caso, Ignacio Bernal e Jorge R. Acosta, tra il 650  e l’850 d.C, periodo di massimo apogeo del sito. 

Questo tipo di fregi è replicato nella parte meridionale della facciata principale, anche se purtroppo quel segmento mostra notevoli danni. Gli studiosi ritengono che il fregio completo misurasse circa 30 metri di lunghezza e che fosse posto lungo l’intera facciata orientale o principale, il che rende l’unità residenziale di alto pregio, non solo per Monte Albán ma per l’intera Valle di Oaxaca.   “Materiali come calcare e stucco richiedono un alto grado di specializzazione per la loro manipolazione e restauro, per cui il fregio della Casa del Sur di Atzompa è da considerarsi uno degli elementi più importanti tra le priorità di conservazione dell’Istituto”, sottolinea il ricercatore. Tale ornamento architettonico è un’importante manifestazione della visione cosmogonica degli zapotechi del periodo classico, che si riferisce al rapporto costante che esisteva tra la popolazione comune e le forze o elementi soprannaturali. Tutte le prove archeologiche rinvenute ad Atzompa supportano le argomentazioni per ipotizzare questa connessione. Le indagini sono ancora in corso e il ricercatore del Centro INAH di Oaxaca, César Dante García Ríos, sta lavorando nella parte settentrionale della residenza per definire i reperti riguardanti di un altro fregio presente in quello spazio, legato a immagini iconiche del potere mixteco.


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L’origine del pugnale di ferro meteoritico del faraone Tut diventa sempre più enigmatica. Secondo gli scienziati la tecnologia per realizzarlo non era ancora in uso durante la XVIII dinastia egizia, ma è testimoniata da reperti di migliaia di anni prima in Anatolia…


L’origine del pugnale di ferro meteoritico di Tutankhamon diventa sempre più enigmatica. Secondo gli scienziati la tecnologia per realizzarlo non era ancora in uso durante la XVIII dinastia egizia, ma è testimoniata da reperti di migliaia di anni prima in Anatolia… 

a cura della redazione, 20 febbraio

Chi forgiò e come il pugnale di ferro trovato nella tomba di Tutankhamon? Ma soprattutto quando? Uno studio del 2016 aveva confermato l'origine meteoritica del metallo utilizzato, ma sono rimaste domande sul tipo di meteorite da cui proveniva e su come fosse stato lavorato. È qui che entra in gioco il nuovo studio, pubblicato questo mese su “Meteoritics & Planetary Science”. Un team di ricercatori giapponesi, guidati da Takafumi Matsui del Chiba Institute of Technology, ha recentemente scansionato ai raggi X il pugnale, scoprendo prove che testimoniano l’uso di tecniche che all’epoca non erano comuni in Egitto. Da dove viene dunque questo pugnale?

LO SAPEVI CHE - Il pugnale di Tutankhamon è costituito da una lama di ferro metallico a doppio taglio e da un’elsa fatta principalmente d’oro. La lama mostra una superficie metallica grossolanamente lucidata con lucentezza debole e sottili graffi. L’elsa ha cinque fasce larghe, che sono decorate con pietre come lapislazzuli, corniola e malachite. Nelle porzioni d’oro tra le fasce decorate, vengono creati motivi a forma di diamante e ondulati con grani d’oro fini di circa 0,5 millimetri. Queste pietre e grani d’oro sono legati alla superficie dell’oro. L’elsa ha un pomo di cristallo fissato alla base d’oro da diversi spilli d’oro. La guaina non ha materiali accessori. Il motivo sul fodero è inciso su lamina d’oro. 

Tutti i risultati ottenuti indicano un’origine poco chiara per la lama meteoritica scoperta tra le spoglie della tomba di re Tut (XVIII dinastia egizia - 1361–1352 a.C.). Primo elemento a infittire il mistero la sua impugnatura d’oro, che sembra essere stata realizzata con intonaco di calce, un materiale adesivo che non fu utilizzato in Egitto fino a molto tempo dopo, durante il periodo tolemaico (305–30 a.C.), ma che all’epoca era già utilizzato altrove. Secondo i ricercatori questo indica una sua origine straniera. Quindi chi lo forgiò conosceva già questa tecnica e l'esemplare depositato accanto al copro di Tutankhamon resta un unicum in tutto l'Antico Egitto. Perché?

LO SAPEVI CHE - Le macchie nere della lama sono chimicamente distinte dalle aree lisce e metalliche. Il contenuto medio di Fe e Ni delle macchie nere è leggermente inferiore a quello delle porzioni lisce e metalliche. La mappatura elementare del Ni sulla superficie della lama mostra disposizioni a bande discontinue in punti con simmetria "cubica" e larghezza di banda di circa 1 mm, suggerendo il modello Widmanstätten.

Per risolvere il puzzle, gli scienziati hanno mappato la struttura elementare della lama, rivelando concentrazioni di ferro, nichel, manganese e cobalto. Dopo aver escluso che le macchie annerite presenti sul pugnale fossero ruggine, hanno tracciato la presenza di zolfo, cloro, calcio e zinco. Hanno scoperto che si tratta di solfuro di ferro. Altrettanto interessante, quanto la composizione degli elementi presenti, è stato osservare la loro distribuzione. La lama del meteorite aveva una trama tratteggiata nota come modello Widmanstätten. Si tratta di un effetto presente in alcuni meteoriti metallici causato dal modo in cui il nichel è distribuito in essi. La presenza di tale struttura nel pugnale di Tutankhamon indica che era costituito da un’ottaedrite, una struttura intrecciata propria dei meteoriti ferrosi, che richiede però un trattamento speciale.

LO SAPEVI CHE - Le ottaedriti devono il loro nome alla struttura cristallina i cui piani sono paralleli a quelli di un ottaedro. Avendo otto facce opposte e parallele tra loro, ci sono solo 4 piani nella loro struttura intrecciata. Questi piani sono costituiti da cristalli piatti di kamacite detti lamelle. Tale cristallizzazione delle leghe metalliiche è avvenuta grazie al lentissimo periodo di raffreddamento all’interno dell’asteroide progenitore. Una volta tagliato il meteorite, i cristalli appaiono sulla superficie come bande. Le bande hanno dimensioni che possono variare da circa 0,2 millimetri a 5 centimetri e formano quella che è più comunemente detta struttura di Widmanstätten. In realtà fu G. Thomson, un geologo inglese che viveva a Napoli, a pubblicare per primo questa scoperta nel 1804. Thomson scoprì queste figure mentre stava trattando con l’acido nitrico una meteorite di Krasnojarsk allo scopo di pulirla dalla ruggine. Improvvisamente si accorse che l’acido aveva fatto emergere dal metallo intricati disegni mai visti prima. 

Assodato che l’alta qualità di tale oggetto indica una particolare abilità di lavorare il ferro meteoritico, tuttavia, il suo metodo di produzione rimane poco chiaro. Tra i numerosi processi per fabbricarlo viene esclusa la lavorazione a freddo. Il meteorite non è stato tagliato e lucidato. Anche la lavorazione a caldo, con fusione ad alta temperatura e successiva colata non è possibile. Resta solo l'ipotesi del riscaldamento a bassa temperatura e successiva forgiatura. La struttura ottaedrica rilevata nel ferro dell’antico pugnale egizio, infatti, sarebbe scomparsa se fosse stato riscaldato a una temperatura molto elevata. Una teoria confermata dalla presenza di depositi di troilite. 

Ora, il più antico pugnale di ferro meteoritico, noto sino ad oggi, è stato trovato a Alacuhöyük, nell'odierna Turchia. Questo pugnale risale alla prima età del bronzo, circa 2300 a.C., e fu ritrovato in un contesto funerario. Tale scoperta suggerisce che la tecnologia per lavorare il ferro meteoritico per creare oggetti complessi abbia almeno 4300 anni e che già allora, se non prima, era conosciuta in Anatolia, dove in seguito è stata sviluppata la fusione del ferro. Il pugnale di Alacuhöyük, però, è fortemente corroso, rendendo difficile lo studio di come sia stato fabbricato. La lama del pugnale di Tutankhamon, al contrario, è ben conservata e ha offerto finalmente l’opportunità agli scienziati di certificare l’esistenza di tale tecnica di lavorazione, ma in un luogo, l'Egitto dove non era praticata, o per lo meno non se ne ha traccia, salvo nel caso del pugnale del giovane faraone.

SCOPRI IL MONDO DI FENIX - Il Mensile sui Misteri della Storia e del Sacro - a destra FOTO ©British Museum 

   
 Le relazioni con l'Anatolia e i faraoni della XVIII Dinastia, 
con particolare attenzione ad Akhenaton e Tutankhamon sono dovute a una conoscenza 
da parte dei faraoni di quel periodo di una antica relazione con la remota regione turca.
 È stato dimostrato dalla ricerca genetica, difatti, che le mummie egizie nobiliari dai capelli rossi erano individui i cui antenati provenivano dall'Anatolia 
in una migrazione avvenuta millenni prima. 
Un dato che probabilmente i sacerdoti di Eliopoli conoscevano, 
 di cui i faraoni della XVIII Dinastia vennero a conoscenza 
e che spiegherebbe molti enigmi associati ad Akhenaton e Tuthankhamon
Il direttore di FENIX, Adriano Forgione, ne ha parlato su FENIX n.107 (settembre 2017). 
Le analisi sul ferro meteorico del pugnale di Tuthankamon sono invece pubblicate su FENIX n.93 mentre l'analisi del DNA delle mummie egizie dai Capelli rossi è su FENIX n.117 e n.120.


Sebbene l’analisi chimica non offra indizi precisi, lo studio comparato di una serie di tavolette di argilla di 3.400 anni fa, note come Lettere di Amarna, che documenta attività diplomatiche nell’Antico Egitto a metà del XIV secolo a.C., sembra essere la pista giusta da seguire per comprendere cosa accadde. Le tavolette sono incise in accadico e furono scoperte lungo il fiume Nilo. Menzionano un pugnale di ferro in una guaina d’oro, presumibilmente non un accessorio comune all’epoca, che fu donato al nonno di Tutankhamon, Amenhotep III (1417–1379 a.C.), da Tusratta, re di Mitanni, quando il faraone sposò sua figlia, la principessa Taduhepa. È possibile quindi che il pugnale provenga dal sud-est dell’Anatolia, e che re Tut lo abbia ereditato poiché è stato tramandato attraverso la sua famiglia. Resta un mistero quando e da chi fu fabbricato...


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Gli scienziati scoprono la prima prova documentata di un intervento chirurgico su entrambe le ossa temporali e, molto probabilmente, la prima mastoidectomia radicale conosciuta nella storia dell’umanità…


a cura della redazione, 19 febbraio 

I ricercatori hanno scoperto la prima prova nota di un intervento chirurgico all’orecchio in un cranio del 3300 a.C., recuperato in una sepoltura megalitica nella provincia di Burgos, nella Spagna centro-settentrionale. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” il 15 febbraio scorso. All’interno del dolmen di El Pendón, che custodisce le ossa di centinaia di persone, un team di archeologi e ricercatori, guidato da Manuel Rojo Guerra, professore di Preistoria all’Università di Valladolid, ha individuato un cranio con due perforazioni bilaterali su entrambe le ossa mastoidi. Le analisi effettuate dai dipartimenti di Anatomia, Radiologia e Otorinolaringoiatria di Valladolid, in collaborazione con il Laboratorio di Evoluzione Umana (LEH) dell'Università di Burgos, indicano un intervento chirurgico eseguito per alleviare il dolore causato da una forte otite. Ipotesi avvalorata, secondo gli studiosi, dalla presenza di tagli al margine anteriore della trapanazione praticata nell’orecchio sinistro. Inoltre, i risultati delle analisi eseguite dimostrano la sopravvivenza del soggetto a entrambi gli interventi. È interessante notare che anche gli altri corpi rinvenuti nella "fossa comune" risultano aver sofferto, in vita, diverse patologie e lesioni, ancora al vaglio scientifico.

Il teschio era rotto e mancava di alcune parti, ma il neurocranio era completo e in posizione, così come l’osso nasale, gli zigomi e la mascella inferiore. È stato trovato disteso sul lato destro di fronte all’ingresso della camera funeraria. L’esame del cranio ha rivelato che apparteneva a una donna, probabilmente in età avanzata, poiché aveva perso tutti i denti e la sua cartilagine tiroidea era completamente ossidata. L’esame osteologico e le scansioni TC hanno rilevato che i canali uditivi esterni di entrambe le orecchie erano stati ingranditi. I bordi delle cavità sono risultai lisci, senza fratture o calli. La cosa più sorprendente è stato scoprire che queste cavità erano state ampliate mediante una forma di trapanazione inspiegabile per l'epoca. «Questo tipo di intervento, nonostante la sua antichità (5.300 anni), deve essere stato eseguito da autentici specialisti o da persone con determinate conoscenze anatomiche e/o esperienze terapeutiche accumulate. In questo senso, il ritrovamento nella tomba di un foglio di selce con tracce di osso tagliato e riscaldato più volte a una temperatura compresa tra 300º e 350º, autorizza a proporne l'uso come cauterio o strumento chirurgico per eseguire l'operazione», spiegano Cristina Tejedor Rodríguez e Sonia Díaz Navarro nel comunicato dell'Università di Valladolid.

I sette segni di taglio sul bordo della cavità, dove è stata effettuata la delicata operazione in prossimità dell’orecchio sinistro, sono un’ulteriore prova dell’intervento chirurgico. In base alla datazione attribuita al ritrovamento, quando ancora i metalli non erano in uso nella zona, la trapanazione e i tagli dovrebbero essere stati eseguiti con strumenti in pietra e senza alcuna anestesia. È possibile? Siamo di fronte alla più antica prova archeologica di questa tecnica chirurgica eseguita con una precisione millesimale. Le superfici interne delle cavità mostrano segni di riassorbimento spesso osservati nella mastoidite, un’infezione dell’osso appena dietro l’orecchio. In base ai riscontri sembra che si sia manifestata in età avanzata. Il che rende ancora più sorprendente l'intervento, avvenuto su ossa adulte. Prove di ascessi da mastoidite sono state scoperte in precedenza in altri crani antichi, ma non erano mai stati trovati segni di alcun tentativo di intervento chirurgico né di ricrescita ossea, indice di recupero post operatorio, ascrivibili a tale periodo della nostra preistoria. Questo cranio, invece, mostra una chiara evidenza di rigenerazione e rimodellamento osseo. 

L’analisi al radiocarbonio ha stabilito che il dolmen fu costruito all’inizio del IV millennio a.C.. La tomba fu utilizzata per circa 800 anni, tra il 3.800 e il 3.000 a.C., subendo una serie di riutilizzi, raggruppamenti e riduzioni di cadaveri nel corso del tempo, lasciandoci una fotografia del complesso mondo simbolico e rituale che ospitano simili monumentali costruzioni funerarie. Tale luogo di sepoltura è costituito da una camera centrale con un lungo passaggio d’ingresso. Il recinto è stato creato con grandi pietre erette attorno alle quali è stato costruito un tumulo, ora scomparso, di pietra e terra che originariamente aveva un diametro di quasi 25 metri. Una seconda fase di utilizzo, nell’ultimo quarto del IV millennio a.C. vide la trasformazione della camera funeraria nel sepolcreto collettivo, dove è stato trovato il cranio della donna. Gli altri corpi presenti furono disarticolati e i resti riposizionati secondo uno schema di matrice rituale. Per i ricercatori, dunque, la dispersione non fu casuale. Sono stati trovati almeno 15 diversi raggruppamenti di crani e bacini. In base alla ricostruzione degli studiosi, verso la fine di quel millennio, solo sei dei megaliti calcarei originali erano ancora in piedi, mentre le strutture del passaggio d’ingresso erano scomparse e l’ex tumulo aveva un diametro di pochi metri. Nonostante non avesse più una funzione funeraria, sono state trovate tracce che dimostrano come il sito sia stato ancora venerato come centro cerimoniale e comunitario per molti secoli ancora.


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Le iscrizioni di un’antica spilla medievale scoperta in una chiesa in Inghilterra, ne suggeriscono un uso rituale, tra il sacro e il profano....


a cura della redazione, 18 febbraio

Le iscrizioni di un’antica spilla, scoperta in una parrocchia a Manningford nel Wiltshire, all'estremità settentrionale della pianura di Salisbury, suggeriscono un uso rituale dell’oggetto. Il prezioso ornamento risale a un periodo compreso tra il 1150 e il 1350 d.C. ed è inciso con una preghiera latina e le iniziali di una frase ebraica che si ritiene abbia proprietà amuletiche. Sebbene questo tipo di spilla con iscrizione sia stata trovata in precedenza, quella di Manningford è unica nella documentazione archeologica, perché è completa, non ha errori (comuni in un’epoca in cui gli artigiani non erano alfabetizzati), ed è incisa su quattro lati. Fu scoperta con il metal detector da William Nordhoff nel marzo dello scorso anno in un campo appena arato a Pewsey Vale. In Inghilterra e in Galles, i metal detectoristi riferiscono le loro scoperte al Portable Antiquities Scheme (PAS), un'organizzazione sponsorizzata dal governo che pubblica rapporti e immagini dei reperti sul proprio sito Web e talvolta su riviste accademiche. 

Una fibula votiva o un amuleto? A prima vista sembrerebbe un lussuoso ornamento muliebre decorativo, composto da un anello circolare con uno spillo fissato da un passante. La parte anteriore e posteriore della cornice sono smussate, creando quattro superfici tutte incise in lettere di stile lombardo. L’iscrizione su tre delle superfici recita + AVE. MARIA. GRACIA. PLENA: DOMINVS: + T: ECVM: BENEDICTATV: INMULIERIBV ET: BENEDI(CT)VS: FRVCTVS: VENTRIS: TVI. AMEN. ( “AVE MARIA PIENA DI GRAZIA IL SIGNORE/ È CON TE/ TUA BENEDETTA TRA LE DONNE/ E BENEDETTO È IL FRUTTO DEL TUO GREMBO. AMEN”) La “S” alla fine di “MULIERIBV” è mancante, non è un errore, ma una scelta deliberata perché l’attacco a perno era d’intralcio. Sulla quarta superficie, però, l’angolo interno inverso, recita: + A + G + L + A +. Una scritta che rende il gioiello un sigillo amuletico. AGLA, infatti, è un antico simbolo protettivo, derivato dalla tradizione cabalistica dell’acronimo che rimanda alla formula “Atah Gibor Le-olam Adonai” (“Tu sei Onnipotente in eterno, o Signore” - Adonai è uno dei quattro nomi di Dio). Secondo la Kabbalà tale sigla ha un potere apotropaico e, in particolare, è volto alla protezione dalle forze negative. Eliphas Levi in “Storia della Magia” spiega che saper leggere questa parola e saperla pronunciare, cioè comprenderne i misteri e tradurre in azione queste conoscenze assolute, significa possedere la chiave delle Meraviglie: “Pronunciare kabbalisticamente il nome AGLA significa dunque subire tutte le prove dell’iniziazione e compierne tutte le opere”. Il mistero della parola e dei suoni è profondo e nei rituali ermetici, il valore fonico, analogico e determinativo è tutto, anche senza nesso logico tra la significazione della parola profana e lo scopo ermetico che si vuole ottenere. Il verbum, infatti, è sostanza o lievito di materia. 

Perché questa commistione tra preghiera ed evocazione magica? Spesso non è possibile decidere in modo univoco se un ritrovamento avesse una motivazione religiosa, come un sacrificio o un’offerta votiva, o un’intenzione magica, come il tentativo di imporre una risposta, una reazione favorevole dal mondo spirituale. Comune a entrambi, religioso o magico, era la convinzione che fosse possibile connettersi con un altro mondo attraverso oggetti materiali e rituali ad essi associati. Ma magia e religione differiscono tra loro: nella religione l’uomo venera la divinità, nella magia usa la divinità per i propri scopi. Pertanto, i rituali magici hanno la forza di costringere gli spiriti o le forze ultraterrene ad agire come desiderato, se i rituali magici prescritti sono stati adempiuti correttamente. Ma questa distinzione tra religione e magia non è sempre netta, poiché all’interno dei rituali religiosi troviamo molte componenti magiche. Secondo Frank Klaassen, professore di Storia all'Università del Saskatchewan, riportato su Live Science, le iniziali ebraiche per "AGLA", sarebbero state comunemente usate nella magia rituale per amuleti protettivi e incantesimi come "uno dei tanti nomi divini o parole di potere comuni nelle tradizioni medievali".

A fare la differenza, però, potrebbe essere l'uso dell’oro, simbolo per eccellenza del divino, utilizzato nell'investiture, nell'accumulo di tesori votivi, nei corredi funebri e nell'invito a utilizzarlo come "inchiostro" per le formule rituali, persino nell'Antico Egitto. Non ci sono esempi, almeno nelle fonti scritte dell’Inghilterra anglosassone, che facciano riferimento all’oro usato nelle pratiche magiche. L'associazione alla sfera divina, per le sue qualità intrinseche, la troviamo sia nella religione precristiana che in quella cristiana. La lucentezza dell’oro, la sua natura indistruttibile, la sua malleabilità e la sua relativa scarsità ne fanno un materiale ideale per incarnare qualità sovrumane, ma anche espressioni della venerazione umana del divino. Tanto che è stato sempre percepito come un materiale appropriato con cui rivolgersi agli Dei. Templi, santuari e chiese sono riccamente decorati con statue e immagini dorate. Gli Dei dei miti germanici vivevano, secondo la Voluspa, in una sala ricoperta d’oro, e giocavano con giochi da tavolo d’oro. La stessa attrezzatura liturgica era d’oro. Esiste anche una lunga tradizione di ex voto, ad esempio sotto forma di tavolette realizzate in metalli preziosi, oro o argento, e dedicate a una divinità.


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Tracce della presenza umana, 12.000 anni prima di quanto si pensasse, associate a tecniche presenti solo in Africa o nel Levante, scoperte in una gotta nella Valle del Rodano, dove l’Homo sapiens e i Nenderthal si alterarono a ondate per 40.000 anni…


a cura della redazione, 11 febbraio

Le testimonianze culturali e antropologiche della Grotta di Mandrin mostrano l’arrivo dell’Homo sapiens, nel cuore dei territori dei Neanderthal, 12.000 anni prima di quanto si pensasse, associate misteriosamente a tecniche presenti solo in Africa o nel Levante. Siamo nel sud della Francia, dove Sapiens e i Nenderthal si alternarono a ondate inspiegabilmente periodiche per ben 40.000 anni. A suggerirlo, la scoperta del dente di un bambino di quasi 56.000 anni fa e di strumenti di pietra nella stessa grotta. Questa incursione umana della prima età moderna nella Valle del Rodano è associata a tecnologie sconosciute di quell’epoca. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista Science Advances (PDF). I reperti sono stati scoperti, da un team guidato dal Prof , membro permanente del CNRS dell’Università di Tolosa, dimostrando che questa popolazione è scomparsa nel nulla. Ancora una volta si dovranno riscrivere i nostri libri di storia.

Arroccato a circa 100 metri sulle pendici delle Prealpi nel sud della Francia, un umile riparo roccioso si affaccia sulla valle del fiume Rodano. È un punto strategico del paesaggio, poiché qui il Rodano scorre attraverso uno stretto tra due catene montuose.  Il sito, scoperto negli anni ‘60 e chiamato Grotta di Mandrin in onore di Louis Mandrin, è stato un luogo prezioso per oltre 100.000 anni. I manufatti in pietra e le ossa di animali lasciati dagli antichi cacciatori-raccoglitori del Paleolitico furono rapidamente ricoperti dalla polvere glaciale che soffiava da nord sui famosi venti di maestrale, mantenendo i resti ben conservati. Dal 1990, un team di ricerca ha studiato attentamente i 3 metri più alti di sedimento sul pavimento della grotta. Basandosi su manufatti e fossili di denti, hanno scoperto che Mandrin riscrive la storia di quando gli esseri umani moderni si sono fatti strada per la prima volta in Europa. 

A parte un possibile impulso sporadico registrato in Grecia durante il Pleistocene medio, i primi insediamenti di esseri umani moderni in Europa sono stati limitati da circa 45.000 a 43.000 anni fa. I ricercatori generalmente concordano sul fatto che tra 300.000 e 40.000 anni fa, i Neanderthal e i loro antenati occuparono l’Europa. Di tanto in tanto, durante quel periodo, hanno avuto contatti con gli esseri umani moderni nel Levante e in alcune parti dell’Asia. Poi, tra 48.000 e 45.000 anni fa, gli umani moderni - essenzialmente noi - si espansero in tutto il resto del mondo e i Neanderthal e tutti gli altri umani arcaici scomparvero. Gli archeologi hanno trovato prove fossili in diversi strati del sito. Più in basso scavavano, più indietro nel tempo potevano vedere. Gli strati più bassi mostravano i resti dei Neanderthal che occuparono l’area per circa 20.000 anni. Ma con loro completa sorpresa, il team ha trovato il dente di un bambino di Homo sapiens in uno strato risalente a circa 56.000 anni fa, insieme ad alcuni strumenti di pietra realizzati in un modo che non era associato ai Neanderthal. L’evidenza suggerisce che questo primo gruppo di umani visse nel sito per un periodo relativamente breve, forse circa 2.000 anni dopo che il sito non era più occupato. I Neanderthal tornano quindi, occupando il sito per diverse migliaia di anni, fino a quando gli umani moderni ritornano circa 44.000 anni fa. 

La scoperta curiosa, emersa durante il primo decennio di scavi della Grotta di Mandrin, sono stati 1.500 minuscole schegge triangolari di pietra identificati in quello che è stato etichettato come Strato E. Alcune lunghe meno di 1 centimetro, tali schegge assomigliano a punte di freccia. Non hanno corrispondenti, a livello di esecuzione tecnica, né precursori né successori in nessuno degli 11 strati archeologici circostanti di manufatti dei Neanderthal nella grotta. Strumenti realizzati allo stesso modo erano stati trovati in pochi altri siti nella valle del Rodano e anche in Libano, ma fino ad ora gli scienziati non erano sicuri di quale specie umana li avesse prodotti. Rappresentano, dunque, un unicum rispetto a tutti i manufatti musteriani di Mandrin. In base alle loro caratteristiche distintive è stata data loro un’attribuzione culturale unica, la “Neroniana”, dal sito della Grotta de Néron, dove furono rivenuti la prima volta. 

Chi li ha fatti? Anche una manciata di altri siti nella media valle del Rodano contengono questi piccoli frammenti. Senza appigli per un confronto diretto, , archeologa presso l’Università di Aix-Marseille e ricercatore affiliato in Antropologia dell’Università del Connecticut, ha cercato in una regione in cui gli esseri umani moderni vivevano stabilmente 54.000 anni fa: il Mediterraneo orientale. In particolare, il sito di Ksar Akil vicino a Beirut, che conserva quella che potrebbe essere la documentazione paleolitica più lunga e ricca di tutta l’Eurasia. Le analisi dei manufatti in pietra di Ksar Akil mostrano uno strato di sedimenti di età simile con minuscole schegge della stessa dimensione e realizzate secondo le stesse tradizioni tecniche di quelli di Mandrin. Questa somiglianza suggerisce che i manufatti neroniani non sono stati realizzati dai Neanderthal, ma da un gruppo di esploratori umani moderni che entrarono nella regione molto prima di quanto gli scienziati si aspettassero. 

L’ultimo pezzo del puzzle è arrivato nel 2018, quando , paleoantropologo dell’Università di Bordeaux, ha analizzato i denti di nove ominidi, trovati nei diversi strati durante gli scavi. Attraverso le scansioni TC e confrontandoli con centinaia di altri fossili, gli scienziati sono stati in grado di determinare che il dente dello strato E di Mandrin, un singolo dente da latte di un bambino di età compresa tra 2 e 6 anni, proveniva da un essere umano della prima età moderna e non da un Neanderthal. Sulla base delle tecnologie delle punte di pietra e dei loro contesti in altri siti, insieme a queste prove fossili, hanno concluso che i creatori delle punte neroniane a Mandrin erano esseri umani moderni. 

Ma le scoperte di Mandrin non si fermano qui. In tutti gli strati del sito ci sono frammenti delle pareti e del tetto del rifugio che sono caduti e sono stati sepolti, insieme ai fossili e ai manufatti. Quando i Neanderthal e gli esseri umani moderni accendevano fuochi nel sito, il fumo lasciava uno strato di fuliggine su quelle superfici. Quindi la stagione successiva un sottile strato di carbonato di calcio chiamato speleothem lo copriva. Questo ciclo è stato ripetuto più e più volte. I ricercatori hanno scoperto per la prima volta questi frammenti di volte fuligginose nel 2006 e il team ne ha recuperati migliaia, anno dopo anno, in ogni strato archeologico di Mandrin. Un decennio di lavoro ha dimostrato che questi schemi possono essere letti come gli anelli degli alberi per dirci con quale frequenza e durata i gruppi hanno visitato il sito, dimostrando che diversi gruppi umani sono arrivati a Mandrin circa 500 volte in 80.000 anni. Ségolène Vandevelde è stato persino in grado di determinare quanto tempo ha separato l’ultimo fuoco di Neanderthal dal primo fuoco umano moderno nella grotta, dimostrando un’alternanza tra le due razze. Dopo aver occupato Mandrin, ogni anno per circa 40 anni, una o due generazioni di Sapiens scomparve altrettanto rapidamente e misteriosamente come era apparsa. I Neanderthal poi rioccuparono regolarmente Mandrin nei successivi 12.000 anni. 

Come hanno fatto questi umani moderni ad arrivare così presto nell'Europa occidentale? , docente di Antropologia e vicedirettore del Turkana Basin Institute, ha dimostrato che le prove archeologiche dall’Australia indicano che gli esseri umani moderni hanno raggiunto il nostro continente già 65.000 anni fa. Ovviamente avrebbero avuto bisogno di una barca per attraversare l’oceano aperto per arrivarci. Pertanto, non è un’esagerazione supporre che le persone nel Mediterraneo abbiano avuto accesso alle tecnologie nautiche 54.000 anni fa e le abbiano utilizzate per esplorare le coste. Sappiamo dalle posizioni di origine della selce utilizzata per realizzare i manufatti nelle grotta di Mandrin che sia i Neanderthal sia gli umani moderni vagavano ampiamente, per almeno 100 chilometri, in tutte le direzioni intorno al sito. Come hanno fatto gli esseri umani moderni a conoscere tutte queste risorse su un paesaggio così ampio e vario in così poco tempo? Avevano rapporti con i Neanderthal? Avrebbero potuto scambiarsi informazioni o fungere da guide? È stato questo un momento in cui i due gruppi si sono incrociati? Determinare l’entità della sovrapposizione tra gli esseri umani moderni e altri ominidi in Eurasia, come i Neanderthal e i Denisoviani, è fondamentale per comprendere la natura delle loro interazioni e cosa ha portato alla scomparsa degli ominidi arcaici.


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a cura della redazione, 10 febbraio

Rimasti un mistero per oltre un secolo, i cilindri preistorici di gesso della Gran Bretagna, iniziano finalmente a far luce sulla civiltà che costruì il gigantesco cerchio di pietre megalitico. Non si tratta di strumenti musicali. A dimostralo il ritrovamento di un esemplare intatto reso noto solo oggi al pubblico, dopo sette anni dalla sua scoperta. Gli studiosi hanno annunciato, infatti, il ritrovamento di quella che è considerata la più importante opera d’arte preistorica dell’Isola d’oltre Manica. Il prezioso oggetto sarà in mostra al Brirtish Museum di Londra dal 17 febbraio al 17 luglio 2022 in “The World of Stonehenge”. Si tratta di una scultura cilindrica in gesso scoperta nel 2015 in una tomba neolitica vicino al villaggio di Burton Agnes.

Ne esistono solo altri tre esemplari, ma non così ben conservati. Il tamburo di Burton Agnes è scolpito in modo ancora più intricato e riflette le connessioni tra le comunità dello Yorkshire, di Stonehenge, delle Orcadi e dell’Irlanda di 5.000 anni fa. Il cilindro, a forma di tamburo, decorato con elaborati disegni geometrici è stato scoperto durante lo scavo in un sito, dove era previsto lo sviluppo di un impianto di energia rinnovabile. I motivi incisi su di esso devono ancora essere decifrati, ma si pensa abbiano un significato simbolico o religioso.

Sono stati individuati grazie a un’indagine geofisica, che ha rivelato due tumuli, uno circolare e uno quadrato. Nel tumulo circolare gli archeologi hanno scoperto una sepoltura centrale intatta, contenente i resti scheletrici di tre bambini. I due bambini più piccoli si tenevano abbracciati mentre il braccio del maggiore teneva i più piccoli. Il tamburo di gesso fu posto contro la testa del maggiore dei tre. La datazione al radiocarbonio dei resti umani ha stabilito che i bambini morirono tra il 3005 e il 2890 a.C.. Nella tomba sono stati trovati anche uno spillo d'osso levigato e una palla di gesso, reperti che sono stati trovati anche negli scavi di Stonehenge.

È molto simile nel design a tre “tamburi” di gesso portati alla luce a soli 30 chilometri da Burton Agnes, a Folkton nel 1889. Anche loro furono scoperti accanto ai resti di un bambino. Al momento del ritrovamento, i “tamburi2 non potevano essere assolutamente datati, ma la nuova scoperta porta l’età stimata per questi tre cilindri 500 anni indietro rispetto quanto si pensasse prima. Anche questi sono realizzati con gesso estratto localmente e decorati con volti umani stilizzati e motivi geometrici. Sulla loro sommità sono presenti una serie di cerchi concentrici e due di essi hanno come due occhi che denotano schematicamente un volto umano. Il design è simile agli oggetti realizzati nella cultura Beaker e nella prima età del bronzo britannica. Il loro scopo non è noto con certezza, sebbene le dimensioni dei "tamburi" possano essere significative: l’archeologa Anne Teather ha osservato che le loro circonferenze formano divisioni di numeri interi (dieci, nove e otto volte, rispettivamente), un’unità di misura utilizzate nella Gran Bretagna neolitica. 



"I tamburi sembrano essere stati creati in una serie accuratamente graduata di dimensioni, in modo che la circonferenza di ciascun di essi possa essere utilizzata per misurare una proporzione fissa di una lunghezza standard di 3,22 metri. Una corda di questa lunghezza si avvolge esattamente dieci volte attorno alla circonferenza del tamburo più piccolo ed esattamente nove, otto o sette volte attorno a ciascuna sequenza di tamburi più grandi. Studi precedenti hanno dimostrato che multipli della misura standard di 3,22 metri sono stati utilizzati per tracciare i diametri di grandi opere di sterro circolari e dei loro cerchi di pietra e legno a Stonehenge e Durrington Walls. Insieme alle nuove prove dello Yorkshire e del Sussex, ciò indica che uno standard di misurazione preistorico era ampiamente utilizzato nell'antica Gran Bretagna.La disposizione regolare di monumenti rituali grandi e complessi come Stonehenge implica che il cantiere sia stato ispezionato attentamente e che le dimensioni richieste per grandi pietre potrebbero essere trasferite a siti di cava di pietra situati fino a 260 chilometri di distanza. I cilindri di misurazione avrebbero fornito un metodo accurato e altamente portatile per garantire che le pietre estratte fossero della dimensione corretta e per garantire che monumenti di design simile potessero essere costruiti in luoghi ampiamente separati. Il gesso non è il materiale più adatto per la produzione di apparecchiature di misurazione e si pensa che i tamburi possano essere repliche di standard di "lavorazione" originali scolpiti nel legno - tuttavia, il legno non è conservato nella maggior parte dei siti archeologici neolitici e non sono stati trovati strumenti di misurazione in legno utilizzati nella Gran Bretagna preistorica. L'esistenza di questi dispositivi di misura implica una conoscenza avanzata di quella civiltà della geometria e delle proprietà matematiche dei cerchi". The Novium Musem



Tra le ipotesi di Teather, insieme a Andrew Chamberlain e Mike Parker Pearson, si pensa possano essere stati strumenti per misurare le lunghezze utilizzate nella costruzione di monumenti come Stonehenge e il circolo di legno a Durrington Walls. La circonferenza di ciascuno dei tamburi corrisponde a una suddivisione di 10 piedi lunghi neolitici, equivalente a 0,3219 metri.

Secondo la studiosa, però, la simbologia presente fa pensare si tratti di oggetti cerimoniali, sopravvissuti grazie al materiale insolito di cui sono fatti, mentre altri strumenti simili potrebbero essere stati realizzati in legno, più deperibile, e per questo potrebbero essere andati perduti. Simile ai tamburi di Folkton e Burton Agnes, è il tamburo di Lavant, un piccolo oggetto cilindrico in gesso del Neolitico scoperto nel 1993. Non è decorato, tuttavia, ed è possibile che i segni siano stati consumati. Era associato a un frammento di ceramica di Mortlake, il che implica una datazione del Neolitico medio. Attualmente, è conservato al museo The Novium di Chichester. Il Tamburo di Burton Agnes e gli esemplari di Folkton saranno esposti insieme nella nuova mostra del British Museum per cinque mesi.


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Un antico cimitero dell'età della pietra custodisce gli amuleti e le offerte rituali di 110 corpi, guidati da un cavaliere accompagnato nell'Aldilà dal su cavallo senza testa...


a cura della redazione, 9 febbraio

Gli scheletri di un uomo e di un cavallo senza testa, presumibilmente risalenti a 1.400 anni fa, sono stati scoperti in un cimitero nel sud della Germania. Si pensa che l’uomo fosse un vassallo dei re merovingi, che governarono nell’Europa centrale dal 476 al 750 d.C.. Una datazione ancora approssimativa, in attesa di conferme scientifiche, dedotta daIl’aver trovato i corpi di una intera comunità, ben 110 tombe, sepolti nei loro costumi tradizionali secondo l’usanza altomedievale. 

Gli esperti non sono sicuri del motivo per cui il cavallo sia stato decapitato, ma pensano che questo trattamento fosse parte della cerimonia di sepoltura dell’uomo, con il corpo del destriero come bene funerario. Tra le sue altre cose c’erano una spada dritta a doppio taglio conosciuta come “spatha” e una lancia. La testa del cavallo non è stata ancora trovata.  

Data la posizione di Knittlingen in un fertile paesaggio di vecchi insediamenti, le indagini hanno anche rivelato singoli reperti preistorici, dell'età della pietra", spiega l’archeologo Folke Damminger, responsabile della LAD, nel comunicato stampa del Consiglio Regionale di Stoccarda. Oltre a fosse aspecifiche, la planimetria della costruzione neolitica è a palo e si nota un fossato irregolare e arrotondato del diametro di circa 26 metri. I pochi frammenti ceramici che sono stati recuperati in loco indicano un periodo neolitico, intorno al 5000-4500 a.C.. La cosa interessante è che la maggior parte delle tombe di epoca medioevale è stata trovata disposta in file regolari, mentre i membri dell’élite locale sono stati sepolti “fuori sequenza” all’interno di un fossato circolare del diametro di 10 metri. 

Il cimitero medievale, un po’ a ovest del centro di Knittlingen, fu scoperto per la prima volta nel 1920 durante i lavori di costruzione di una linea ferroviaria. L’uomo trovato sepolto accanto al suo cavallo era probabilmente al servizio della dinastia merovingia. “Probabilmente un membro dell’élite locale, molto probabilmente era il capo di una clan composto dalla sua famiglia e dai suoi servi”, spiega Damminger. Gli studiosi ipotizzano che l’elaborata sepoltura dell'uomo sia stata organizzata dal gruppo per riaffermare la sua - e la loro - posizione sociale. “Come se con tale cerimonia si assistesse a una messa in scena dello status del defunto, una sorta di atto propiziatorio per garantire ai successori il continuum di tale benessere”, dice l’archeologo escludendo l’ipotesi del sacrificio rituale. Perché tagliare la testa al cavallo allora? Qualcosa non torna.

Anticamente, la sepoltura con il proprio cavallo oltre ad esprimere la memoria collettiva di un popolo in ossequio al defunto, aveva la valenza di guida verso l’altro mondo. II simbolismo della decollazione, però, associato a tale animale solare implica il risveglio dell’immanifesto e l’abbandono delle pulsioni emozionali legate alla natura animale. Tale connotazione, che fa riferimento a un bagaglio di credenze, erroneamente relegate a meri culti pagani, tramandate nel tempo da miti e leggende, sono state assimilate in una complessa sovrapposizione culturale, che trova una significativa espressione sia nella cultura materiale che in alcune forme rituali. Svariati rinvenimenti archeologici enfatizzano il forte legame con il mondo degli animali in ambito funerario, con particolare riferimento alle sepolture equine acefale. Solo lo studio osteologico in corso potrà determinare se la dissezione, a livello della prima vertebra cervicale, sia un fatto casuale oppure corrisponda a una pratica rituale osservata e studiata in Italia (Collegno e Sacca di Goito, Povegliano Veronese), Germania (Donzdorf) e in Austria (Zeuzleben) in una casistica abbastanza ampia di inumazioni che comprendevano deposizioni, intere o parziali, dei cavalli sacrificati in fosse predisposte accanto a quelle dei loro proprietari. Per quel che se ne ha traccia, tale rito, che si differenzia profondamente da quello nomadico di origine euro-asiatica, caratterizzato invece dall’inumazione nella medesima tomba del cavallo e del cavaliere (in Italia è attestato nella necropoli di Campochiaro nel Molise), nacque nelle aree europee centrali tra III e V secolo e si diffuse successivamente nei territori estesi ad est del Reno fra le popolazioni germaniche che comprendevano Franchi orientali, Alemanni, Longobardi e Turingi. 

Nel luogo il team ha riferito di aver esaminato 110 tombe in totale, alcune delle quali erano semplici sepolture mentre altre utilizzavano bare di legno e camere funerarie più elaborate. In quelle maschili, gli uomini, sono stati sepolti accanto alle loro armi, tra cui punte di freccia, lance, scudi e spade, mentre altri sono stati sepolti con oggetti di lusso, come una donna cui è stata trovata accanto una spilla d’oro. Altri corredi funerari includevano amuleti, bracciali, fibbie per cinture, orecchini, collane di perle e fermagli per abiti, insieme a ciotole di bronzo, pettini, coltelli e vasi di ceramica. Questi ultimi, indipendentemente dal sesso e dall'età del defunto, contenevano ossa di animali e gusci d'uovo.

Secondo gli archeologi, queste sepolture sono notevolmente più sontuose delle loro controparti della fine del VII secolo. A chi appartenevano realmente? La loro peculiarità numerica, incastonate all’interno delle lune neolitiche, la simbologia degli amuleti, la connessione alla ritualità sacrificale del cavallo fanno supporre si trattasse di un gruppo particolare. Dopo aver trasportato i reperti al Rastatt per le analisi, i ricercatori stanno ora studiando i resti del cavallo senza testa e del suo cavaliere, con l’obiettivo di conoscere l’età dell’uomo, il suo stato di salute, la probabile causa della sua morte e forse qualcosa di più sulla sua vera identità.


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Una gigantesca ondata di immigrazione durante l'età del bronzo sostituì la maggior parte della popolazione locale. Ma furono le donne a guidare questo cambiamento…


a cura della redazione, 8 febbraio 

Combinando l’archeologia con lo studio del DNA antico dei resti umani dal sito di Links of Noltland, nella remota isola settentrionale di Westray, un team internazionale di genetisti e archeologi delle Università di Huddersfield e di Edimburgo, hanno dimostrato che le Orcadi hanno subito un’immigrazione su larga scala durante la prima età del bronzo, che ha sostituito gran parte della popolazione locale. I nuovi arrivati furono probabilmente i primi a parlare lingue indoeuropee e portarono antenati genetici derivati in parte da pastori che vivevano nelle steppe a nord del Mar Nero. Una fotografia che, a primo sguardo, rispecchia quello che stava accadendo nel resto della Gran Bretagna e in Europa nel terzo millennio a.C.. 

Eppure, i ricercatori hanno scoperto un’affascinante differenza che rende le Orcadi altamente distintive. In gran parte dell’Europa, l’espansione dei pastori alla vigilia dell’età del bronzo era tipicamente guidata da gruppi locali di uomini. Nelle Orcadi, invece, gli scienziati hanno dimostrato che i nuovi arrivati dell’età del bronzo erano principalmente donne, mentre i lignaggi maschili della popolazione neolitica originaria sopravvissero per almeno altri mille anni, cosa che non si vede da nessun’altra parte. Questi lignaggi neolitici, tuttavia, furono sostituiti durante l’età del ferro e oggi sono incredibilmente rari. Lo studio verrà pubblicato a fine febbraio su PNAS.

Ma perché le Orcadi erano così diverse? Il dottor Graeme Wilson e Hazel Moore della EASE Archaeology sostengono che la risposta potrebbe risiedere nella stabilità a lungo termine e nell’autosufficienza delle fattorie delle Orcadi, rispetto alla recessione a livello europeo, che colpì verso la fine del Neolitico quelle terre. Ciò implica che le Orcadi erano molto meno insulari di quanto si pensasse e che ci fu un lungo periodo di negoziazione tra i maschi indigeni e le nuove arrivate dal sud, nel corso di molte generazioni. “Questo dimostra che l’espansione del terzo millennio a.C. in tutta Europa non è stata un processo monolitico, ma è stato più complessa e varia da luogo a luogo”, spiega in un comunicato il dottor George Foody, uno dei ricercatori principali del progetto dell’Università di Huddersfield. I risultati sono stati sorprendenti sia per gli archeologi che per i genetisti del team, anche se per ragioni diverse: gli archeologi non si aspettavano un’immigrazione su larga scala, mentre i genetisti non prevedevano la sopravvivenza dei lignaggi maschili del Neolitico. 

Il direttore dell’Università del Centro di Ricerca sulla Genomica Evolutiva, il professor Martin Richards, aggiunge nello stesso comunicato: “Questa ricerca mostra quanto dobbiamo ancora imparare su uno degli eventi più importanti della preistoria europea: come sia finito il Neolitico”. La ricerca è stata pubblicata dalla Gazzetta ufficiale della National Academy of Sciences (NAS) ed è intitolata “DNA antico ai confini del mondo: l'immigrazione continentale e la persistenza dei lignaggi maschili neolitici nelle Orcadi dell'età del bronzo”, a cura di Katharina Dulias, George Foody, Pierre Justeau et al. Gli scavi, finanziati dall'Historic Environment Scotland, fanno parte di un programma di borsa di studio del dottorato Leverhulme Trust assegnato al professor Richards e alla dottoressa Maria Pala.


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L’uomo viveva sulla penisola arabica 210.000 anni fa, anche durante i periodi di siccità...

Jebel Fayah, situato a Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti, è uno dei più importanti siti paleolitici in Arabia. Nel 2009 gli scavi hanno rivelato l'occupazione umana risalente a 125.000 anni fa, rendendolo l'allora più antico sito umano conosciuto in Arabia. Nuovi dati archeologici indicano che l'insediamento umano nell'Arabia meridionale si è verificato in una gamma inaspettata di condizioni climatiche e significativamente prima di quanto si pensasse...


a cura della redazione, 7 febbraio

Secondo un comunicato diramato dall’Università di Friburgo, tra i 210.000 e i 120.000 anni fa, il popolo paleolitico occupò ripetutamente Jebel Fayah, un rifugio roccioso nell’Arabia meridionale. Un team internazionale di ricercatori, tra cui Knut Bretzke, dell’Università di Tubinga, Adrian Parker, dell’Università di Oxford Brookes, e Frank Preusser, dell’Università di Friburgo, ha datato le fasi di occupazione della grotta con la luminescenza, che determina quando i grani di quarzo presenti negli strati di sedimenti sono stati esposti per l’ultima volta alla luce del giorno. È stato così possible ricostruire i paleoambienti per i diversi periodi di tempo. I ricercatori hanno determinato che il riparo roccioso fu occupato durante fasi di condizioni climatiche estremamente secche e umide. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.

In precedenza si pensava che i migranti fuori dall’Africa evitassero di viaggiare attraverso l’Arabia durante queste fasi siccitose. Sino ad oggi, infatti, la documentazione archeologica araba aveva supportato la speculazione dell’occupazione umana in quest’area legata a periodi di maggiore piovosità, mentre la siccità avrebbe portato alla contrazione delle popolazioni umane in rifugi come la regione del bacino del Golfo, le montagne del Dhofar e la zona litoranea adiacente, nonché la pianura costiera del Mar Rosso. “Pensiamo che l'interazione unica della flessibilità comportamentale umana, i paesaggi a mosaico dell'Arabia sudorientale e il verificarsi di brevi periodi di condizioni più umide hanno consentito la sopravvivenza di questi primi gruppi umani", spiega nel comunicato  Bretzke.


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Scheletri ricomposti, custoditi in tombe di pietra, svelano una tecnica post mortem peruviana, legata ad antiche credenze dei popoli del nord delle Ande, presenti anche in Egitto…


a cura della redazione, 5 febbraio

La manipolazione post mortem di corpi umani è documentata in molte regioni del mondo, compreso il Sud America. Recenti ricerche archeologiche sul campo nella valle del Chincha, in Perù, aggiungono a questo catalogo quasi 200 esempi di infilatura di vertebre umane su pali di canne. Un team di ricercatori, guidato da Jacob Bongers, dell’Università dell’East Anglia, ne ha trovato 192 esemplari custoditi in tombe di pietra. Si tratta di resti modificati, che rappresentano un preciso processo sociale. Tale manipolazione, infatti, riflette la volontà di mantenere una relazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, secondo antiche credenze. La datazione al radiocarbonio, però, indica i perni risalgono al periodo coloniale, tra il 1450 e il 1650 d.C., quando gli europei saccheggiavano le tombe del popolo Chincha, la cui popolazione contava fino a 30.000 abitanti, tra il 1000 e il 1400 d.C.. 

È plausibile ipotizzare che i resti dei defunti siano stati recuperati dopo un saccheggio e ricomposti, ma non si può escludere che la pratica fosse antecedente e che sia stata semplicemente rispettata dopo l’invasione straniera. Coloro che sopravvissero alla colonizzazione potrebbero aver infilato le ossa sparpagliate dei loro cari sulle canne, nel tentativo di ricostruire le sepolture profanate. L’analisi dei singoli perni, ha mostrato che la maggior parte delle vertebre sovrapposte apparteneva a una sola persona, anche se alcune erano incomplete e le ossa sembra siano state infilate fuori ordine. Per gli studiosi, questo mostrerebbe che le ossa sono state comunque prelevate dopo che i corpi si erano decomposti; ma non sono stati in grado, al momento di stabilire se la decomposizione facesse parte di un rituale più antico. 

Le vertebre su perno sono state documentate all'interno di 88 chullpa. Tali tombe hanno attributi architettonici variabili. Alcune sono sotterranee, altre sono costruite con pietra di campo, adobe e tapia (fango versato) e presentano aperture, prove di coperture e piattaforme interne, possibilmente per l’esposizione di resti umani e offerte. All’interno delle sepolture sono stati rinvenuti anche tessuti molli. Le analisi bioarcheologiche dei chullpa sotterranei hanno rivelato persino resti mummificati e molte pupe di insetti, la cui presenza nelle tombe suggerisce che i corpi dei defunti sano stati esposti a un processo di scarnificazione prima della sepoltura. Un esempio di comportamento ritualizzato che testimonia antichi culti ancestrali. 

È altrettanto possibile ipotizzare che i popoli indigeni abbiano recuperato resti umani, come capelli e unghie, per ricostituire nuove immagini di culto, che potrebbero aver funzionato come sostituti di effigi. Certo è che, averne trovate 192 e il fatto che siano così diffuse su quel lembo di terra - le troviamo in tutta la Valle dei Chincha - indica che più persone hanno agito in modo condiviso, con una pratica che sembra sia stata considerata da un intero gruppo sociale il modo più appropriato di interagire con l'Adilà. 

FOTO ©Adriano Forgione

     
  «Questo rituale ricorda la ricomposizione del corpo di Osiride tra gli Egizi. L'impiego delle vertebre impilate in questo rituale trova, difatti, corrispondenza allegorica nel mondo antico associato al simbolismo dello Djed, la colonna dorsale del dio Osiride, simbolo di Giustizia, Stabilità e Vita Eterna. In quanto amuleto legato alla vittoria sulla morte è relazionato alla manifestazione di colui che è ponte tra Cielo e Terra. La resurrezione di Osiride, infatti, nella forma del giovane dio solare Horus, suo figlio, è un simbolismo “kundalinico”, l’energia di resurrezione che nell’Induismo è correlata alla manifestazione del Corpo Glorioso attaverso l’attivazione dei 7 Chakra lungo la colonna vertebrale», spiega Adriano Forgione, direttore della rivista Fenix, esperto di Misteri della Storia e del Sacro.


Qual è il rapporto tra decomposizione e manipolazione del corpo post mortem? Secondo lo studio le parti del corpo del defunto continuavano a vivere ben oltre la morte biologica. Recenti ricerche sul aDNA (DNA antico) dei resti di una delle tombe suggerisce che provenissero da individui non locali. I dati sull’intero genoma sono stati raccolti da campioni di denti associati a due crani, trovati disarticolati.

Ovviamente non è stato possibile stabilire la relazione tra questi individui campionati per l’analisi genetica e le otto vertebre sui perni trovati nel chullpa. Tuttavia, gli studiosi hanno ipotizzato che si tratti di individui geneticamente più simili ai popoli antichi della costa nord peruviana. Si può supporre che il loro arrivo possa aver creato comunità cosmopolite, determinando nuove relazioni socio-politiche, che hanno reso necessaria una nuova forma di pratica funeraria: l’inserimento di pali di canne attraverso vertebre non locali. 

Da questo punto di vista, le vertebre sui pali potrebbero aver incarnato, all’interno dei chullpa, differenze sociali tra locali e no. In alternativa, anche le popolazioni non locali avrebbero potuto portare con sé le vertebre sui pali a Chincha. Tuttavia, saranno necessarie ulteriori analisi genetiche e isotopiche stabili per comprendere le origini e le identità degli individui selezionati per questa pratica. Da non sottovalutare, però, il fatto che il mantenimento dell’integrità dei cadaveri era fondamentale anche per le società al di fuori delle Ande. 

La “ricostruzione” di corpi depredati e disaggregati non era limitata al Sud America. Una pratica simile è stata riscontrata in Egitto. Un esempio lo troviamo nel sito di Kellis, a Ismant el-Kharab nell’oasi egiziana di Dakhle, occupato dal periodo tolemaico (332–30 a.C.) fino al 400 d.C., dove le mummie sono state depositate in camere tombali dotate di aperture, come nel caso dei chullpa di Chincha. Uno studio del 2004 documenta anche qui l’uso di bastoncini di legno, resina e lino per ricostruire i corpi, presumibilmente perturbati a seguito di un saccheggio. Le parti smembrate erano state steccate utilizzando costole a foglia di palma, che sono state anche frequentemente inserite nelle colonne spinali. Pur dovendo essere cauti nel tracciare questo confronto interculturale, le somiglianze tra i casi andini e quelli dell'Antico Egitto sono sorprendenti, poiché rivelano similitudini in un lasso di tempo che non corrisponderebbe con l'era coloniale in Perù e a una distanza di migliaia di chilometri  tra due culture separate da un oceano.


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