L’origine del pugnale di ferro meteoritico del faraone Tut diventa sempre più enigmatica. Secondo gli scienziati la tecnologia per realizzarlo non era ancora in uso durante la XVIII dinastia egizia, ma è testimoniata da reperti di migliaia di anni prima in Anatolia…


L’origine del pugnale di ferro meteoritico di Tutankhamon diventa sempre più enigmatica. Secondo gli scienziati la tecnologia per realizzarlo non era ancora in uso durante la XVIII dinastia egizia, ma è testimoniata da reperti di migliaia di anni prima in Anatolia… 

a cura della redazione, 20 febbraio

Chi forgiò e come il pugnale di ferro trovato nella tomba di Tutankhamon? Ma soprattutto quando? Uno studio del 2016 aveva confermato l'origine meteoritica del metallo utilizzato, ma sono rimaste domande sul tipo di meteorite da cui proveniva e su come fosse stato lavorato. È qui che entra in gioco il nuovo studio, pubblicato questo mese su “Meteoritics & Planetary Science”. Un team di ricercatori giapponesi, guidati da Takafumi Matsui del Chiba Institute of Technology, ha recentemente scansionato ai raggi X il pugnale, scoprendo prove che testimoniano l’uso di tecniche che all’epoca non erano comuni in Egitto. Da dove viene dunque questo pugnale?

LO SAPEVI CHE - Il pugnale di Tutankhamon è costituito da una lama di ferro metallico a doppio taglio e da un’elsa fatta principalmente d’oro. La lama mostra una superficie metallica grossolanamente lucidata con lucentezza debole e sottili graffi. L’elsa ha cinque fasce larghe, che sono decorate con pietre come lapislazzuli, corniola e malachite. Nelle porzioni d’oro tra le fasce decorate, vengono creati motivi a forma di diamante e ondulati con grani d’oro fini di circa 0,5 millimetri. Queste pietre e grani d’oro sono legati alla superficie dell’oro. L’elsa ha un pomo di cristallo fissato alla base d’oro da diversi spilli d’oro. La guaina non ha materiali accessori. Il motivo sul fodero è inciso su lamina d’oro. 

Tutti i risultati ottenuti indicano un’origine poco chiara per la lama meteoritica scoperta tra le spoglie della tomba di re Tut (XVIII dinastia egizia - 1361–1352 a.C.). Primo elemento a infittire il mistero la sua impugnatura d’oro, che sembra essere stata realizzata con intonaco di calce, un materiale adesivo che non fu utilizzato in Egitto fino a molto tempo dopo, durante il periodo tolemaico (305–30 a.C.), ma che all’epoca era già utilizzato altrove. Secondo i ricercatori questo indica una sua origine straniera. Quindi chi lo forgiò conosceva già questa tecnica e l'esemplare depositato accanto al copro di Tutankhamon resta un unicum in tutto l'Antico Egitto. Perché?

LO SAPEVI CHE - Le macchie nere della lama sono chimicamente distinte dalle aree lisce e metalliche. Il contenuto medio di Fe e Ni delle macchie nere è leggermente inferiore a quello delle porzioni lisce e metalliche. La mappatura elementare del Ni sulla superficie della lama mostra disposizioni a bande discontinue in punti con simmetria "cubica" e larghezza di banda di circa 1 mm, suggerendo il modello Widmanstätten.

Per risolvere il puzzle, gli scienziati hanno mappato la struttura elementare della lama, rivelando concentrazioni di ferro, nichel, manganese e cobalto. Dopo aver escluso che le macchie annerite presenti sul pugnale fossero ruggine, hanno tracciato la presenza di zolfo, cloro, calcio e zinco. Hanno scoperto che si tratta di solfuro di ferro. Altrettanto interessante, quanto la composizione degli elementi presenti, è stato osservare la loro distribuzione. La lama del meteorite aveva una trama tratteggiata nota come modello Widmanstätten. Si tratta di un effetto presente in alcuni meteoriti metallici causato dal modo in cui il nichel è distribuito in essi. La presenza di tale struttura nel pugnale di Tutankhamon indica che era costituito da un’ottaedrite, una struttura intrecciata propria dei meteoriti ferrosi, che richiede però un trattamento speciale.

LO SAPEVI CHE - Le ottaedriti devono il loro nome alla struttura cristallina i cui piani sono paralleli a quelli di un ottaedro. Avendo otto facce opposte e parallele tra loro, ci sono solo 4 piani nella loro struttura intrecciata. Questi piani sono costituiti da cristalli piatti di kamacite detti lamelle. Tale cristallizzazione delle leghe metalliiche è avvenuta grazie al lentissimo periodo di raffreddamento all’interno dell’asteroide progenitore. Una volta tagliato il meteorite, i cristalli appaiono sulla superficie come bande. Le bande hanno dimensioni che possono variare da circa 0,2 millimetri a 5 centimetri e formano quella che è più comunemente detta struttura di Widmanstätten. In realtà fu G. Thomson, un geologo inglese che viveva a Napoli, a pubblicare per primo questa scoperta nel 1804. Thomson scoprì queste figure mentre stava trattando con l’acido nitrico una meteorite di Krasnojarsk allo scopo di pulirla dalla ruggine. Improvvisamente si accorse che l’acido aveva fatto emergere dal metallo intricati disegni mai visti prima. 

Assodato che l’alta qualità di tale oggetto indica una particolare abilità di lavorare il ferro meteoritico, tuttavia, il suo metodo di produzione rimane poco chiaro. Tra i numerosi processi per fabbricarlo viene esclusa la lavorazione a freddo. Il meteorite non è stato tagliato e lucidato. Anche la lavorazione a caldo, con fusione ad alta temperatura e successiva colata non è possibile. Resta solo l'ipotesi del riscaldamento a bassa temperatura e successiva forgiatura. La struttura ottaedrica rilevata nel ferro dell’antico pugnale egizio, infatti, sarebbe scomparsa se fosse stato riscaldato a una temperatura molto elevata. Una teoria confermata dalla presenza di depositi di troilite. 

Ora, il più antico pugnale di ferro meteoritico, noto sino ad oggi, è stato trovato a Alacuhöyük, nell'odierna Turchia. Questo pugnale risale alla prima età del bronzo, circa 2300 a.C., e fu ritrovato in un contesto funerario. Tale scoperta suggerisce che la tecnologia per lavorare il ferro meteoritico per creare oggetti complessi abbia almeno 4300 anni e che già allora, se non prima, era conosciuta in Anatolia, dove in seguito è stata sviluppata la fusione del ferro. Il pugnale di Alacuhöyük, però, è fortemente corroso, rendendo difficile lo studio di come sia stato fabbricato. La lama del pugnale di Tutankhamon, al contrario, è ben conservata e ha offerto finalmente l’opportunità agli scienziati di certificare l’esistenza di tale tecnica di lavorazione, ma in un luogo, l'Egitto dove non era praticata, o per lo meno non se ne ha traccia, salvo nel caso del pugnale del giovane faraone.

SCOPRI IL MONDO DI FENIX - Il Mensile sui Misteri della Storia e del Sacro - a destra FOTO ©British Museum 

   
 Le relazioni con l'Anatolia e i faraoni della XVIII Dinastia, 
con particolare attenzione ad Akhenaton e Tutankhamon sono dovute a una conoscenza 
da parte dei faraoni di quel periodo di una antica relazione con la remota regione turca.
 È stato dimostrato dalla ricerca genetica, difatti, che le mummie egizie nobiliari dai capelli rossi erano individui i cui antenati provenivano dall'Anatolia 
in una migrazione avvenuta millenni prima. 
Un dato che probabilmente i sacerdoti di Eliopoli conoscevano, 
 di cui i faraoni della XVIII Dinastia vennero a conoscenza 
e che spiegherebbe molti enigmi associati ad Akhenaton e Tuthankhamon
Il direttore di FENIX, Adriano Forgione, ne ha parlato su FENIX n.107 (settembre 2017). 
Le analisi sul ferro meteorico del pugnale di Tuthankamon sono invece pubblicate su FENIX n.93 mentre l'analisi del DNA delle mummie egizie dai Capelli rossi è su FENIX n.117 e n.120.


Sebbene l’analisi chimica non offra indizi precisi, lo studio comparato di una serie di tavolette di argilla di 3.400 anni fa, note come Lettere di Amarna, che documenta attività diplomatiche nell’Antico Egitto a metà del XIV secolo a.C., sembra essere la pista giusta da seguire per comprendere cosa accadde. Le tavolette sono incise in accadico e furono scoperte lungo il fiume Nilo. Menzionano un pugnale di ferro in una guaina d’oro, presumibilmente non un accessorio comune all’epoca, che fu donato al nonno di Tutankhamon, Amenhotep III (1417–1379 a.C.), da Tusratta, re di Mitanni, quando il faraone sposò sua figlia, la principessa Taduhepa. È possibile quindi che il pugnale provenga dal sud-est dell’Anatolia, e che re Tut lo abbia ereditato poiché è stato tramandato attraverso la sua famiglia. Resta un mistero quando e da chi fu fabbricato...


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Gli scienziati scoprono la prima prova documentata di un intervento chirurgico su entrambe le ossa temporali e, molto probabilmente, la prima mastoidectomia radicale conosciuta nella storia dell’umanità…


a cura della redazione, 19 febbraio 

I ricercatori hanno scoperto la prima prova nota di un intervento chirurgico all’orecchio in un cranio del 3300 a.C., recuperato in una sepoltura megalitica nella provincia di Burgos, nella Spagna centro-settentrionale. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” il 15 febbraio scorso. All’interno del dolmen di El Pendón, che custodisce le ossa di centinaia di persone, un team di archeologi e ricercatori, guidato da Manuel Rojo Guerra, professore di Preistoria all’Università di Valladolid, ha individuato un cranio con due perforazioni bilaterali su entrambe le ossa mastoidi. Le analisi effettuate dai dipartimenti di Anatomia, Radiologia e Otorinolaringoiatria di Valladolid, in collaborazione con il Laboratorio di Evoluzione Umana (LEH) dell'Università di Burgos, indicano un intervento chirurgico eseguito per alleviare il dolore causato da una forte otite. Ipotesi avvalorata, secondo gli studiosi, dalla presenza di tagli al margine anteriore della trapanazione praticata nell’orecchio sinistro. Inoltre, i risultati delle analisi eseguite dimostrano la sopravvivenza del soggetto a entrambi gli interventi. È interessante notare che anche gli altri corpi rinvenuti nella "fossa comune" risultano aver sofferto, in vita, diverse patologie e lesioni, ancora al vaglio scientifico.

Il teschio era rotto e mancava di alcune parti, ma il neurocranio era completo e in posizione, così come l’osso nasale, gli zigomi e la mascella inferiore. È stato trovato disteso sul lato destro di fronte all’ingresso della camera funeraria. L’esame del cranio ha rivelato che apparteneva a una donna, probabilmente in età avanzata, poiché aveva perso tutti i denti e la sua cartilagine tiroidea era completamente ossidata. L’esame osteologico e le scansioni TC hanno rilevato che i canali uditivi esterni di entrambe le orecchie erano stati ingranditi. I bordi delle cavità sono risultai lisci, senza fratture o calli. La cosa più sorprendente è stato scoprire che queste cavità erano state ampliate mediante una forma di trapanazione inspiegabile per l'epoca. «Questo tipo di intervento, nonostante la sua antichità (5.300 anni), deve essere stato eseguito da autentici specialisti o da persone con determinate conoscenze anatomiche e/o esperienze terapeutiche accumulate. In questo senso, il ritrovamento nella tomba di un foglio di selce con tracce di osso tagliato e riscaldato più volte a una temperatura compresa tra 300º e 350º, autorizza a proporne l'uso come cauterio o strumento chirurgico per eseguire l'operazione», spiegano Cristina Tejedor Rodríguez e Sonia Díaz Navarro nel comunicato dell'Università di Valladolid.

I sette segni di taglio sul bordo della cavità, dove è stata effettuata la delicata operazione in prossimità dell’orecchio sinistro, sono un’ulteriore prova dell’intervento chirurgico. In base alla datazione attribuita al ritrovamento, quando ancora i metalli non erano in uso nella zona, la trapanazione e i tagli dovrebbero essere stati eseguiti con strumenti in pietra e senza alcuna anestesia. È possibile? Siamo di fronte alla più antica prova archeologica di questa tecnica chirurgica eseguita con una precisione millesimale. Le superfici interne delle cavità mostrano segni di riassorbimento spesso osservati nella mastoidite, un’infezione dell’osso appena dietro l’orecchio. In base ai riscontri sembra che si sia manifestata in età avanzata. Il che rende ancora più sorprendente l'intervento, avvenuto su ossa adulte. Prove di ascessi da mastoidite sono state scoperte in precedenza in altri crani antichi, ma non erano mai stati trovati segni di alcun tentativo di intervento chirurgico né di ricrescita ossea, indice di recupero post operatorio, ascrivibili a tale periodo della nostra preistoria. Questo cranio, invece, mostra una chiara evidenza di rigenerazione e rimodellamento osseo. 

L’analisi al radiocarbonio ha stabilito che il dolmen fu costruito all’inizio del IV millennio a.C.. La tomba fu utilizzata per circa 800 anni, tra il 3.800 e il 3.000 a.C., subendo una serie di riutilizzi, raggruppamenti e riduzioni di cadaveri nel corso del tempo, lasciandoci una fotografia del complesso mondo simbolico e rituale che ospitano simili monumentali costruzioni funerarie. Tale luogo di sepoltura è costituito da una camera centrale con un lungo passaggio d’ingresso. Il recinto è stato creato con grandi pietre erette attorno alle quali è stato costruito un tumulo, ora scomparso, di pietra e terra che originariamente aveva un diametro di quasi 25 metri. Una seconda fase di utilizzo, nell’ultimo quarto del IV millennio a.C. vide la trasformazione della camera funeraria nel sepolcreto collettivo, dove è stato trovato il cranio della donna. Gli altri corpi presenti furono disarticolati e i resti riposizionati secondo uno schema di matrice rituale. Per i ricercatori, dunque, la dispersione non fu casuale. Sono stati trovati almeno 15 diversi raggruppamenti di crani e bacini. In base alla ricostruzione degli studiosi, verso la fine di quel millennio, solo sei dei megaliti calcarei originali erano ancora in piedi, mentre le strutture del passaggio d’ingresso erano scomparse e l’ex tumulo aveva un diametro di pochi metri. Nonostante non avesse più una funzione funeraria, sono state trovate tracce che dimostrano come il sito sia stato ancora venerato come centro cerimoniale e comunitario per molti secoli ancora.


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Le iscrizioni di un’antica spilla medievale scoperta in una chiesa in Inghilterra, ne suggeriscono un uso rituale, tra il sacro e il profano....


a cura della redazione, 18 febbraio

Le iscrizioni di un’antica spilla, scoperta in una parrocchia a Manningford nel Wiltshire, all'estremità settentrionale della pianura di Salisbury, suggeriscono un uso rituale dell’oggetto. Il prezioso ornamento risale a un periodo compreso tra il 1150 e il 1350 d.C. ed è inciso con una preghiera latina e le iniziali di una frase ebraica che si ritiene abbia proprietà amuletiche. Sebbene questo tipo di spilla con iscrizione sia stata trovata in precedenza, quella di Manningford è unica nella documentazione archeologica, perché è completa, non ha errori (comuni in un’epoca in cui gli artigiani non erano alfabetizzati), ed è incisa su quattro lati. Fu scoperta con il metal detector da William Nordhoff nel marzo dello scorso anno in un campo appena arato a Pewsey Vale. In Inghilterra e in Galles, i metal detectoristi riferiscono le loro scoperte al Portable Antiquities Scheme (PAS), un'organizzazione sponsorizzata dal governo che pubblica rapporti e immagini dei reperti sul proprio sito Web e talvolta su riviste accademiche. 

Una fibula votiva o un amuleto? A prima vista sembrerebbe un lussuoso ornamento muliebre decorativo, composto da un anello circolare con uno spillo fissato da un passante. La parte anteriore e posteriore della cornice sono smussate, creando quattro superfici tutte incise in lettere di stile lombardo. L’iscrizione su tre delle superfici recita + AVE. MARIA. GRACIA. PLENA: DOMINVS: + T: ECVM: BENEDICTATV: INMULIERIBV ET: BENEDI(CT)VS: FRVCTVS: VENTRIS: TVI. AMEN. ( “AVE MARIA PIENA DI GRAZIA IL SIGNORE/ È CON TE/ TUA BENEDETTA TRA LE DONNE/ E BENEDETTO È IL FRUTTO DEL TUO GREMBO. AMEN”) La “S” alla fine di “MULIERIBV” è mancante, non è un errore, ma una scelta deliberata perché l’attacco a perno era d’intralcio. Sulla quarta superficie, però, l’angolo interno inverso, recita: + A + G + L + A +. Una scritta che rende il gioiello un sigillo amuletico. AGLA, infatti, è un antico simbolo protettivo, derivato dalla tradizione cabalistica dell’acronimo che rimanda alla formula “Atah Gibor Le-olam Adonai” (“Tu sei Onnipotente in eterno, o Signore” - Adonai è uno dei quattro nomi di Dio). Secondo la Kabbalà tale sigla ha un potere apotropaico e, in particolare, è volto alla protezione dalle forze negative. Eliphas Levi in “Storia della Magia” spiega che saper leggere questa parola e saperla pronunciare, cioè comprenderne i misteri e tradurre in azione queste conoscenze assolute, significa possedere la chiave delle Meraviglie: “Pronunciare kabbalisticamente il nome AGLA significa dunque subire tutte le prove dell’iniziazione e compierne tutte le opere”. Il mistero della parola e dei suoni è profondo e nei rituali ermetici, il valore fonico, analogico e determinativo è tutto, anche senza nesso logico tra la significazione della parola profana e lo scopo ermetico che si vuole ottenere. Il verbum, infatti, è sostanza o lievito di materia. 

Perché questa commistione tra preghiera ed evocazione magica? Spesso non è possibile decidere in modo univoco se un ritrovamento avesse una motivazione religiosa, come un sacrificio o un’offerta votiva, o un’intenzione magica, come il tentativo di imporre una risposta, una reazione favorevole dal mondo spirituale. Comune a entrambi, religioso o magico, era la convinzione che fosse possibile connettersi con un altro mondo attraverso oggetti materiali e rituali ad essi associati. Ma magia e religione differiscono tra loro: nella religione l’uomo venera la divinità, nella magia usa la divinità per i propri scopi. Pertanto, i rituali magici hanno la forza di costringere gli spiriti o le forze ultraterrene ad agire come desiderato, se i rituali magici prescritti sono stati adempiuti correttamente. Ma questa distinzione tra religione e magia non è sempre netta, poiché all’interno dei rituali religiosi troviamo molte componenti magiche. Secondo Frank Klaassen, professore di Storia all'Università del Saskatchewan, riportato su Live Science, le iniziali ebraiche per "AGLA", sarebbero state comunemente usate nella magia rituale per amuleti protettivi e incantesimi come "uno dei tanti nomi divini o parole di potere comuni nelle tradizioni medievali".

A fare la differenza, però, potrebbe essere l'uso dell’oro, simbolo per eccellenza del divino, utilizzato nell'investiture, nell'accumulo di tesori votivi, nei corredi funebri e nell'invito a utilizzarlo come "inchiostro" per le formule rituali, persino nell'Antico Egitto. Non ci sono esempi, almeno nelle fonti scritte dell’Inghilterra anglosassone, che facciano riferimento all’oro usato nelle pratiche magiche. L'associazione alla sfera divina, per le sue qualità intrinseche, la troviamo sia nella religione precristiana che in quella cristiana. La lucentezza dell’oro, la sua natura indistruttibile, la sua malleabilità e la sua relativa scarsità ne fanno un materiale ideale per incarnare qualità sovrumane, ma anche espressioni della venerazione umana del divino. Tanto che è stato sempre percepito come un materiale appropriato con cui rivolgersi agli Dei. Templi, santuari e chiese sono riccamente decorati con statue e immagini dorate. Gli Dei dei miti germanici vivevano, secondo la Voluspa, in una sala ricoperta d’oro, e giocavano con giochi da tavolo d’oro. La stessa attrezzatura liturgica era d’oro. Esiste anche una lunga tradizione di ex voto, ad esempio sotto forma di tavolette realizzate in metalli preziosi, oro o argento, e dedicate a una divinità.


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Tracce della presenza umana, 12.000 anni prima di quanto si pensasse, associate a tecniche presenti solo in Africa o nel Levante, scoperte in una gotta nella Valle del Rodano, dove l’Homo sapiens e i Nenderthal si alterarono a ondate per 40.000 anni…


a cura della redazione, 11 febbraio

Le testimonianze culturali e antropologiche della Grotta di Mandrin mostrano l’arrivo dell’Homo sapiens, nel cuore dei territori dei Neanderthal, 12.000 anni prima di quanto si pensasse, associate misteriosamente a tecniche presenti solo in Africa o nel Levante. Siamo nel sud della Francia, dove Sapiens e i Nenderthal si alternarono a ondate inspiegabilmente periodiche per ben 40.000 anni. A suggerirlo, la scoperta del dente di un bambino di quasi 56.000 anni fa e di strumenti di pietra nella stessa grotta. Questa incursione umana della prima età moderna nella Valle del Rodano è associata a tecnologie sconosciute di quell’epoca. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista Science Advances (PDF). I reperti sono stati scoperti, da un team guidato dal Prof , membro permanente del CNRS dell’Università di Tolosa, dimostrando che questa popolazione è scomparsa nel nulla. Ancora una volta si dovranno riscrivere i nostri libri di storia.

Arroccato a circa 100 metri sulle pendici delle Prealpi nel sud della Francia, un umile riparo roccioso si affaccia sulla valle del fiume Rodano. È un punto strategico del paesaggio, poiché qui il Rodano scorre attraverso uno stretto tra due catene montuose.  Il sito, scoperto negli anni ‘60 e chiamato Grotta di Mandrin in onore di Louis Mandrin, è stato un luogo prezioso per oltre 100.000 anni. I manufatti in pietra e le ossa di animali lasciati dagli antichi cacciatori-raccoglitori del Paleolitico furono rapidamente ricoperti dalla polvere glaciale che soffiava da nord sui famosi venti di maestrale, mantenendo i resti ben conservati. Dal 1990, un team di ricerca ha studiato attentamente i 3 metri più alti di sedimento sul pavimento della grotta. Basandosi su manufatti e fossili di denti, hanno scoperto che Mandrin riscrive la storia di quando gli esseri umani moderni si sono fatti strada per la prima volta in Europa. 

A parte un possibile impulso sporadico registrato in Grecia durante il Pleistocene medio, i primi insediamenti di esseri umani moderni in Europa sono stati limitati da circa 45.000 a 43.000 anni fa. I ricercatori generalmente concordano sul fatto che tra 300.000 e 40.000 anni fa, i Neanderthal e i loro antenati occuparono l’Europa. Di tanto in tanto, durante quel periodo, hanno avuto contatti con gli esseri umani moderni nel Levante e in alcune parti dell’Asia. Poi, tra 48.000 e 45.000 anni fa, gli umani moderni - essenzialmente noi - si espansero in tutto il resto del mondo e i Neanderthal e tutti gli altri umani arcaici scomparvero. Gli archeologi hanno trovato prove fossili in diversi strati del sito. Più in basso scavavano, più indietro nel tempo potevano vedere. Gli strati più bassi mostravano i resti dei Neanderthal che occuparono l’area per circa 20.000 anni. Ma con loro completa sorpresa, il team ha trovato il dente di un bambino di Homo sapiens in uno strato risalente a circa 56.000 anni fa, insieme ad alcuni strumenti di pietra realizzati in un modo che non era associato ai Neanderthal. L’evidenza suggerisce che questo primo gruppo di umani visse nel sito per un periodo relativamente breve, forse circa 2.000 anni dopo che il sito non era più occupato. I Neanderthal tornano quindi, occupando il sito per diverse migliaia di anni, fino a quando gli umani moderni ritornano circa 44.000 anni fa. 

La scoperta curiosa, emersa durante il primo decennio di scavi della Grotta di Mandrin, sono stati 1.500 minuscole schegge triangolari di pietra identificati in quello che è stato etichettato come Strato E. Alcune lunghe meno di 1 centimetro, tali schegge assomigliano a punte di freccia. Non hanno corrispondenti, a livello di esecuzione tecnica, né precursori né successori in nessuno degli 11 strati archeologici circostanti di manufatti dei Neanderthal nella grotta. Strumenti realizzati allo stesso modo erano stati trovati in pochi altri siti nella valle del Rodano e anche in Libano, ma fino ad ora gli scienziati non erano sicuri di quale specie umana li avesse prodotti. Rappresentano, dunque, un unicum rispetto a tutti i manufatti musteriani di Mandrin. In base alle loro caratteristiche distintive è stata data loro un’attribuzione culturale unica, la “Neroniana”, dal sito della Grotta de Néron, dove furono rivenuti la prima volta. 

Chi li ha fatti? Anche una manciata di altri siti nella media valle del Rodano contengono questi piccoli frammenti. Senza appigli per un confronto diretto, , archeologa presso l’Università di Aix-Marseille e ricercatore affiliato in Antropologia dell’Università del Connecticut, ha cercato in una regione in cui gli esseri umani moderni vivevano stabilmente 54.000 anni fa: il Mediterraneo orientale. In particolare, il sito di Ksar Akil vicino a Beirut, che conserva quella che potrebbe essere la documentazione paleolitica più lunga e ricca di tutta l’Eurasia. Le analisi dei manufatti in pietra di Ksar Akil mostrano uno strato di sedimenti di età simile con minuscole schegge della stessa dimensione e realizzate secondo le stesse tradizioni tecniche di quelli di Mandrin. Questa somiglianza suggerisce che i manufatti neroniani non sono stati realizzati dai Neanderthal, ma da un gruppo di esploratori umani moderni che entrarono nella regione molto prima di quanto gli scienziati si aspettassero. 

L’ultimo pezzo del puzzle è arrivato nel 2018, quando , paleoantropologo dell’Università di Bordeaux, ha analizzato i denti di nove ominidi, trovati nei diversi strati durante gli scavi. Attraverso le scansioni TC e confrontandoli con centinaia di altri fossili, gli scienziati sono stati in grado di determinare che il dente dello strato E di Mandrin, un singolo dente da latte di un bambino di età compresa tra 2 e 6 anni, proveniva da un essere umano della prima età moderna e non da un Neanderthal. Sulla base delle tecnologie delle punte di pietra e dei loro contesti in altri siti, insieme a queste prove fossili, hanno concluso che i creatori delle punte neroniane a Mandrin erano esseri umani moderni. 

Ma le scoperte di Mandrin non si fermano qui. In tutti gli strati del sito ci sono frammenti delle pareti e del tetto del rifugio che sono caduti e sono stati sepolti, insieme ai fossili e ai manufatti. Quando i Neanderthal e gli esseri umani moderni accendevano fuochi nel sito, il fumo lasciava uno strato di fuliggine su quelle superfici. Quindi la stagione successiva un sottile strato di carbonato di calcio chiamato speleothem lo copriva. Questo ciclo è stato ripetuto più e più volte. I ricercatori hanno scoperto per la prima volta questi frammenti di volte fuligginose nel 2006 e il team ne ha recuperati migliaia, anno dopo anno, in ogni strato archeologico di Mandrin. Un decennio di lavoro ha dimostrato che questi schemi possono essere letti come gli anelli degli alberi per dirci con quale frequenza e durata i gruppi hanno visitato il sito, dimostrando che diversi gruppi umani sono arrivati a Mandrin circa 500 volte in 80.000 anni. Ségolène Vandevelde è stato persino in grado di determinare quanto tempo ha separato l’ultimo fuoco di Neanderthal dal primo fuoco umano moderno nella grotta, dimostrando un’alternanza tra le due razze. Dopo aver occupato Mandrin, ogni anno per circa 40 anni, una o due generazioni di Sapiens scomparve altrettanto rapidamente e misteriosamente come era apparsa. I Neanderthal poi rioccuparono regolarmente Mandrin nei successivi 12.000 anni. 

Come hanno fatto questi umani moderni ad arrivare così presto nell'Europa occidentale? , docente di Antropologia e vicedirettore del Turkana Basin Institute, ha dimostrato che le prove archeologiche dall’Australia indicano che gli esseri umani moderni hanno raggiunto il nostro continente già 65.000 anni fa. Ovviamente avrebbero avuto bisogno di una barca per attraversare l’oceano aperto per arrivarci. Pertanto, non è un’esagerazione supporre che le persone nel Mediterraneo abbiano avuto accesso alle tecnologie nautiche 54.000 anni fa e le abbiano utilizzate per esplorare le coste. Sappiamo dalle posizioni di origine della selce utilizzata per realizzare i manufatti nelle grotta di Mandrin che sia i Neanderthal sia gli umani moderni vagavano ampiamente, per almeno 100 chilometri, in tutte le direzioni intorno al sito. Come hanno fatto gli esseri umani moderni a conoscere tutte queste risorse su un paesaggio così ampio e vario in così poco tempo? Avevano rapporti con i Neanderthal? Avrebbero potuto scambiarsi informazioni o fungere da guide? È stato questo un momento in cui i due gruppi si sono incrociati? Determinare l’entità della sovrapposizione tra gli esseri umani moderni e altri ominidi in Eurasia, come i Neanderthal e i Denisoviani, è fondamentale per comprendere la natura delle loro interazioni e cosa ha portato alla scomparsa degli ominidi arcaici.


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a cura della redazione, 10 febbraio

Rimasti un mistero per oltre un secolo, i cilindri preistorici di gesso della Gran Bretagna, iniziano finalmente a far luce sulla civiltà che costruì il gigantesco cerchio di pietre megalitico. Non si tratta di strumenti musicali. A dimostralo il ritrovamento di un esemplare intatto reso noto solo oggi al pubblico, dopo sette anni dalla sua scoperta. Gli studiosi hanno annunciato, infatti, il ritrovamento di quella che è considerata la più importante opera d’arte preistorica dell’Isola d’oltre Manica. Il prezioso oggetto sarà in mostra al Brirtish Museum di Londra dal 17 febbraio al 17 luglio 2022 in “The World of Stonehenge”. Si tratta di una scultura cilindrica in gesso scoperta nel 2015 in una tomba neolitica vicino al villaggio di Burton Agnes.

Ne esistono solo altri tre esemplari, ma non così ben conservati. Il tamburo di Burton Agnes è scolpito in modo ancora più intricato e riflette le connessioni tra le comunità dello Yorkshire, di Stonehenge, delle Orcadi e dell’Irlanda di 5.000 anni fa. Il cilindro, a forma di tamburo, decorato con elaborati disegni geometrici è stato scoperto durante lo scavo in un sito, dove era previsto lo sviluppo di un impianto di energia rinnovabile. I motivi incisi su di esso devono ancora essere decifrati, ma si pensa abbiano un significato simbolico o religioso.

Sono stati individuati grazie a un’indagine geofisica, che ha rivelato due tumuli, uno circolare e uno quadrato. Nel tumulo circolare gli archeologi hanno scoperto una sepoltura centrale intatta, contenente i resti scheletrici di tre bambini. I due bambini più piccoli si tenevano abbracciati mentre il braccio del maggiore teneva i più piccoli. Il tamburo di gesso fu posto contro la testa del maggiore dei tre. La datazione al radiocarbonio dei resti umani ha stabilito che i bambini morirono tra il 3005 e il 2890 a.C.. Nella tomba sono stati trovati anche uno spillo d'osso levigato e una palla di gesso, reperti che sono stati trovati anche negli scavi di Stonehenge.

È molto simile nel design a tre “tamburi” di gesso portati alla luce a soli 30 chilometri da Burton Agnes, a Folkton nel 1889. Anche loro furono scoperti accanto ai resti di un bambino. Al momento del ritrovamento, i “tamburi2 non potevano essere assolutamente datati, ma la nuova scoperta porta l’età stimata per questi tre cilindri 500 anni indietro rispetto quanto si pensasse prima. Anche questi sono realizzati con gesso estratto localmente e decorati con volti umani stilizzati e motivi geometrici. Sulla loro sommità sono presenti una serie di cerchi concentrici e due di essi hanno come due occhi che denotano schematicamente un volto umano. Il design è simile agli oggetti realizzati nella cultura Beaker e nella prima età del bronzo britannica. Il loro scopo non è noto con certezza, sebbene le dimensioni dei "tamburi" possano essere significative: l’archeologa Anne Teather ha osservato che le loro circonferenze formano divisioni di numeri interi (dieci, nove e otto volte, rispettivamente), un’unità di misura utilizzate nella Gran Bretagna neolitica. 



"I tamburi sembrano essere stati creati in una serie accuratamente graduata di dimensioni, in modo che la circonferenza di ciascun di essi possa essere utilizzata per misurare una proporzione fissa di una lunghezza standard di 3,22 metri. Una corda di questa lunghezza si avvolge esattamente dieci volte attorno alla circonferenza del tamburo più piccolo ed esattamente nove, otto o sette volte attorno a ciascuna sequenza di tamburi più grandi. Studi precedenti hanno dimostrato che multipli della misura standard di 3,22 metri sono stati utilizzati per tracciare i diametri di grandi opere di sterro circolari e dei loro cerchi di pietra e legno a Stonehenge e Durrington Walls. Insieme alle nuove prove dello Yorkshire e del Sussex, ciò indica che uno standard di misurazione preistorico era ampiamente utilizzato nell'antica Gran Bretagna.La disposizione regolare di monumenti rituali grandi e complessi come Stonehenge implica che il cantiere sia stato ispezionato attentamente e che le dimensioni richieste per grandi pietre potrebbero essere trasferite a siti di cava di pietra situati fino a 260 chilometri di distanza. I cilindri di misurazione avrebbero fornito un metodo accurato e altamente portatile per garantire che le pietre estratte fossero della dimensione corretta e per garantire che monumenti di design simile potessero essere costruiti in luoghi ampiamente separati. Il gesso non è il materiale più adatto per la produzione di apparecchiature di misurazione e si pensa che i tamburi possano essere repliche di standard di "lavorazione" originali scolpiti nel legno - tuttavia, il legno non è conservato nella maggior parte dei siti archeologici neolitici e non sono stati trovati strumenti di misurazione in legno utilizzati nella Gran Bretagna preistorica. L'esistenza di questi dispositivi di misura implica una conoscenza avanzata di quella civiltà della geometria e delle proprietà matematiche dei cerchi". The Novium Musem



Tra le ipotesi di Teather, insieme a Andrew Chamberlain e Mike Parker Pearson, si pensa possano essere stati strumenti per misurare le lunghezze utilizzate nella costruzione di monumenti come Stonehenge e il circolo di legno a Durrington Walls. La circonferenza di ciascuno dei tamburi corrisponde a una suddivisione di 10 piedi lunghi neolitici, equivalente a 0,3219 metri.

Secondo la studiosa, però, la simbologia presente fa pensare si tratti di oggetti cerimoniali, sopravvissuti grazie al materiale insolito di cui sono fatti, mentre altri strumenti simili potrebbero essere stati realizzati in legno, più deperibile, e per questo potrebbero essere andati perduti. Simile ai tamburi di Folkton e Burton Agnes, è il tamburo di Lavant, un piccolo oggetto cilindrico in gesso del Neolitico scoperto nel 1993. Non è decorato, tuttavia, ed è possibile che i segni siano stati consumati. Era associato a un frammento di ceramica di Mortlake, il che implica una datazione del Neolitico medio. Attualmente, è conservato al museo The Novium di Chichester. Il Tamburo di Burton Agnes e gli esemplari di Folkton saranno esposti insieme nella nuova mostra del British Museum per cinque mesi.


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Un antico cimitero dell'età della pietra custodisce gli amuleti e le offerte rituali di 110 corpi, guidati da un cavaliere accompagnato nell'Aldilà dal su cavallo senza testa...


a cura della redazione, 9 febbraio

Gli scheletri di un uomo e di un cavallo senza testa, presumibilmente risalenti a 1.400 anni fa, sono stati scoperti in un cimitero nel sud della Germania. Si pensa che l’uomo fosse un vassallo dei re merovingi, che governarono nell’Europa centrale dal 476 al 750 d.C.. Una datazione ancora approssimativa, in attesa di conferme scientifiche, dedotta daIl’aver trovato i corpi di una intera comunità, ben 110 tombe, sepolti nei loro costumi tradizionali secondo l’usanza altomedievale. 

Gli esperti non sono sicuri del motivo per cui il cavallo sia stato decapitato, ma pensano che questo trattamento fosse parte della cerimonia di sepoltura dell’uomo, con il corpo del destriero come bene funerario. Tra le sue altre cose c’erano una spada dritta a doppio taglio conosciuta come “spatha” e una lancia. La testa del cavallo non è stata ancora trovata.  

Data la posizione di Knittlingen in un fertile paesaggio di vecchi insediamenti, le indagini hanno anche rivelato singoli reperti preistorici, dell'età della pietra", spiega l’archeologo Folke Damminger, responsabile della LAD, nel comunicato stampa del Consiglio Regionale di Stoccarda. Oltre a fosse aspecifiche, la planimetria della costruzione neolitica è a palo e si nota un fossato irregolare e arrotondato del diametro di circa 26 metri. I pochi frammenti ceramici che sono stati recuperati in loco indicano un periodo neolitico, intorno al 5000-4500 a.C.. La cosa interessante è che la maggior parte delle tombe di epoca medioevale è stata trovata disposta in file regolari, mentre i membri dell’élite locale sono stati sepolti “fuori sequenza” all’interno di un fossato circolare del diametro di 10 metri. 

Il cimitero medievale, un po’ a ovest del centro di Knittlingen, fu scoperto per la prima volta nel 1920 durante i lavori di costruzione di una linea ferroviaria. L’uomo trovato sepolto accanto al suo cavallo era probabilmente al servizio della dinastia merovingia. “Probabilmente un membro dell’élite locale, molto probabilmente era il capo di una clan composto dalla sua famiglia e dai suoi servi”, spiega Damminger. Gli studiosi ipotizzano che l’elaborata sepoltura dell'uomo sia stata organizzata dal gruppo per riaffermare la sua - e la loro - posizione sociale. “Come se con tale cerimonia si assistesse a una messa in scena dello status del defunto, una sorta di atto propiziatorio per garantire ai successori il continuum di tale benessere”, dice l’archeologo escludendo l’ipotesi del sacrificio rituale. Perché tagliare la testa al cavallo allora? Qualcosa non torna.

Anticamente, la sepoltura con il proprio cavallo oltre ad esprimere la memoria collettiva di un popolo in ossequio al defunto, aveva la valenza di guida verso l’altro mondo. II simbolismo della decollazione, però, associato a tale animale solare implica il risveglio dell’immanifesto e l’abbandono delle pulsioni emozionali legate alla natura animale. Tale connotazione, che fa riferimento a un bagaglio di credenze, erroneamente relegate a meri culti pagani, tramandate nel tempo da miti e leggende, sono state assimilate in una complessa sovrapposizione culturale, che trova una significativa espressione sia nella cultura materiale che in alcune forme rituali. Svariati rinvenimenti archeologici enfatizzano il forte legame con il mondo degli animali in ambito funerario, con particolare riferimento alle sepolture equine acefale. Solo lo studio osteologico in corso potrà determinare se la dissezione, a livello della prima vertebra cervicale, sia un fatto casuale oppure corrisponda a una pratica rituale osservata e studiata in Italia (Collegno e Sacca di Goito, Povegliano Veronese), Germania (Donzdorf) e in Austria (Zeuzleben) in una casistica abbastanza ampia di inumazioni che comprendevano deposizioni, intere o parziali, dei cavalli sacrificati in fosse predisposte accanto a quelle dei loro proprietari. Per quel che se ne ha traccia, tale rito, che si differenzia profondamente da quello nomadico di origine euro-asiatica, caratterizzato invece dall’inumazione nella medesima tomba del cavallo e del cavaliere (in Italia è attestato nella necropoli di Campochiaro nel Molise), nacque nelle aree europee centrali tra III e V secolo e si diffuse successivamente nei territori estesi ad est del Reno fra le popolazioni germaniche che comprendevano Franchi orientali, Alemanni, Longobardi e Turingi. 

Nel luogo il team ha riferito di aver esaminato 110 tombe in totale, alcune delle quali erano semplici sepolture mentre altre utilizzavano bare di legno e camere funerarie più elaborate. In quelle maschili, gli uomini, sono stati sepolti accanto alle loro armi, tra cui punte di freccia, lance, scudi e spade, mentre altri sono stati sepolti con oggetti di lusso, come una donna cui è stata trovata accanto una spilla d’oro. Altri corredi funerari includevano amuleti, bracciali, fibbie per cinture, orecchini, collane di perle e fermagli per abiti, insieme a ciotole di bronzo, pettini, coltelli e vasi di ceramica. Questi ultimi, indipendentemente dal sesso e dall'età del defunto, contenevano ossa di animali e gusci d'uovo.

Secondo gli archeologi, queste sepolture sono notevolmente più sontuose delle loro controparti della fine del VII secolo. A chi appartenevano realmente? La loro peculiarità numerica, incastonate all’interno delle lune neolitiche, la simbologia degli amuleti, la connessione alla ritualità sacrificale del cavallo fanno supporre si trattasse di un gruppo particolare. Dopo aver trasportato i reperti al Rastatt per le analisi, i ricercatori stanno ora studiando i resti del cavallo senza testa e del suo cavaliere, con l’obiettivo di conoscere l’età dell’uomo, il suo stato di salute, la probabile causa della sua morte e forse qualcosa di più sulla sua vera identità.


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Una gigantesca ondata di immigrazione durante l'età del bronzo sostituì la maggior parte della popolazione locale. Ma furono le donne a guidare questo cambiamento…


a cura della redazione, 8 febbraio 

Combinando l’archeologia con lo studio del DNA antico dei resti umani dal sito di Links of Noltland, nella remota isola settentrionale di Westray, un team internazionale di genetisti e archeologi delle Università di Huddersfield e di Edimburgo, hanno dimostrato che le Orcadi hanno subito un’immigrazione su larga scala durante la prima età del bronzo, che ha sostituito gran parte della popolazione locale. I nuovi arrivati furono probabilmente i primi a parlare lingue indoeuropee e portarono antenati genetici derivati in parte da pastori che vivevano nelle steppe a nord del Mar Nero. Una fotografia che, a primo sguardo, rispecchia quello che stava accadendo nel resto della Gran Bretagna e in Europa nel terzo millennio a.C.. 

Eppure, i ricercatori hanno scoperto un’affascinante differenza che rende le Orcadi altamente distintive. In gran parte dell’Europa, l’espansione dei pastori alla vigilia dell’età del bronzo era tipicamente guidata da gruppi locali di uomini. Nelle Orcadi, invece, gli scienziati hanno dimostrato che i nuovi arrivati dell’età del bronzo erano principalmente donne, mentre i lignaggi maschili della popolazione neolitica originaria sopravvissero per almeno altri mille anni, cosa che non si vede da nessun’altra parte. Questi lignaggi neolitici, tuttavia, furono sostituiti durante l’età del ferro e oggi sono incredibilmente rari. Lo studio verrà pubblicato a fine febbraio su PNAS.

Ma perché le Orcadi erano così diverse? Il dottor Graeme Wilson e Hazel Moore della EASE Archaeology sostengono che la risposta potrebbe risiedere nella stabilità a lungo termine e nell’autosufficienza delle fattorie delle Orcadi, rispetto alla recessione a livello europeo, che colpì verso la fine del Neolitico quelle terre. Ciò implica che le Orcadi erano molto meno insulari di quanto si pensasse e che ci fu un lungo periodo di negoziazione tra i maschi indigeni e le nuove arrivate dal sud, nel corso di molte generazioni. “Questo dimostra che l’espansione del terzo millennio a.C. in tutta Europa non è stata un processo monolitico, ma è stato più complessa e varia da luogo a luogo”, spiega in un comunicato il dottor George Foody, uno dei ricercatori principali del progetto dell’Università di Huddersfield. I risultati sono stati sorprendenti sia per gli archeologi che per i genetisti del team, anche se per ragioni diverse: gli archeologi non si aspettavano un’immigrazione su larga scala, mentre i genetisti non prevedevano la sopravvivenza dei lignaggi maschili del Neolitico. 

Il direttore dell’Università del Centro di Ricerca sulla Genomica Evolutiva, il professor Martin Richards, aggiunge nello stesso comunicato: “Questa ricerca mostra quanto dobbiamo ancora imparare su uno degli eventi più importanti della preistoria europea: come sia finito il Neolitico”. La ricerca è stata pubblicata dalla Gazzetta ufficiale della National Academy of Sciences (NAS) ed è intitolata “DNA antico ai confini del mondo: l'immigrazione continentale e la persistenza dei lignaggi maschili neolitici nelle Orcadi dell'età del bronzo”, a cura di Katharina Dulias, George Foody, Pierre Justeau et al. Gli scavi, finanziati dall'Historic Environment Scotland, fanno parte di un programma di borsa di studio del dottorato Leverhulme Trust assegnato al professor Richards e alla dottoressa Maria Pala.


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L’uomo viveva sulla penisola arabica 210.000 anni fa, anche durante i periodi di siccità...

Jebel Fayah, situato a Sharjah, negli Emirati Arabi Uniti, è uno dei più importanti siti paleolitici in Arabia. Nel 2009 gli scavi hanno rivelato l'occupazione umana risalente a 125.000 anni fa, rendendolo l'allora più antico sito umano conosciuto in Arabia. Nuovi dati archeologici indicano che l'insediamento umano nell'Arabia meridionale si è verificato in una gamma inaspettata di condizioni climatiche e significativamente prima di quanto si pensasse...


a cura della redazione, 7 febbraio

Secondo un comunicato diramato dall’Università di Friburgo, tra i 210.000 e i 120.000 anni fa, il popolo paleolitico occupò ripetutamente Jebel Fayah, un rifugio roccioso nell’Arabia meridionale. Un team internazionale di ricercatori, tra cui Knut Bretzke, dell’Università di Tubinga, Adrian Parker, dell’Università di Oxford Brookes, e Frank Preusser, dell’Università di Friburgo, ha datato le fasi di occupazione della grotta con la luminescenza, che determina quando i grani di quarzo presenti negli strati di sedimenti sono stati esposti per l’ultima volta alla luce del giorno. È stato così possible ricostruire i paleoambienti per i diversi periodi di tempo. I ricercatori hanno determinato che il riparo roccioso fu occupato durante fasi di condizioni climatiche estremamente secche e umide. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.

In precedenza si pensava che i migranti fuori dall’Africa evitassero di viaggiare attraverso l’Arabia durante queste fasi siccitose. Sino ad oggi, infatti, la documentazione archeologica araba aveva supportato la speculazione dell’occupazione umana in quest’area legata a periodi di maggiore piovosità, mentre la siccità avrebbe portato alla contrazione delle popolazioni umane in rifugi come la regione del bacino del Golfo, le montagne del Dhofar e la zona litoranea adiacente, nonché la pianura costiera del Mar Rosso. “Pensiamo che l'interazione unica della flessibilità comportamentale umana, i paesaggi a mosaico dell'Arabia sudorientale e il verificarsi di brevi periodi di condizioni più umide hanno consentito la sopravvivenza di questi primi gruppi umani", spiega nel comunicato  Bretzke.


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Scheletri ricomposti, custoditi in tombe di pietra, svelano una tecnica post mortem peruviana, legata ad antiche credenze dei popoli del nord delle Ande, presenti anche in Egitto…


a cura della redazione, 5 febbraio

La manipolazione post mortem di corpi umani è documentata in molte regioni del mondo, compreso il Sud America. Recenti ricerche archeologiche sul campo nella valle del Chincha, in Perù, aggiungono a questo catalogo quasi 200 esempi di infilatura di vertebre umane su pali di canne. Un team di ricercatori, guidato da Jacob Bongers, dell’Università dell’East Anglia, ne ha trovato 192 esemplari custoditi in tombe di pietra. Si tratta di resti modificati, che rappresentano un preciso processo sociale. Tale manipolazione, infatti, riflette la volontà di mantenere una relazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, secondo antiche credenze. La datazione al radiocarbonio, però, indica i perni risalgono al periodo coloniale, tra il 1450 e il 1650 d.C., quando gli europei saccheggiavano le tombe del popolo Chincha, la cui popolazione contava fino a 30.000 abitanti, tra il 1000 e il 1400 d.C.. 

È plausibile ipotizzare che i resti dei defunti siano stati recuperati dopo un saccheggio e ricomposti, ma non si può escludere che la pratica fosse antecedente e che sia stata semplicemente rispettata dopo l’invasione straniera. Coloro che sopravvissero alla colonizzazione potrebbero aver infilato le ossa sparpagliate dei loro cari sulle canne, nel tentativo di ricostruire le sepolture profanate. L’analisi dei singoli perni, ha mostrato che la maggior parte delle vertebre sovrapposte apparteneva a una sola persona, anche se alcune erano incomplete e le ossa sembra siano state infilate fuori ordine. Per gli studiosi, questo mostrerebbe che le ossa sono state comunque prelevate dopo che i corpi si erano decomposti; ma non sono stati in grado, al momento di stabilire se la decomposizione facesse parte di un rituale più antico. 

Le vertebre su perno sono state documentate all'interno di 88 chullpa. Tali tombe hanno attributi architettonici variabili. Alcune sono sotterranee, altre sono costruite con pietra di campo, adobe e tapia (fango versato) e presentano aperture, prove di coperture e piattaforme interne, possibilmente per l’esposizione di resti umani e offerte. All’interno delle sepolture sono stati rinvenuti anche tessuti molli. Le analisi bioarcheologiche dei chullpa sotterranei hanno rivelato persino resti mummificati e molte pupe di insetti, la cui presenza nelle tombe suggerisce che i corpi dei defunti sano stati esposti a un processo di scarnificazione prima della sepoltura. Un esempio di comportamento ritualizzato che testimonia antichi culti ancestrali. 

È altrettanto possibile ipotizzare che i popoli indigeni abbiano recuperato resti umani, come capelli e unghie, per ricostituire nuove immagini di culto, che potrebbero aver funzionato come sostituti di effigi. Certo è che, averne trovate 192 e il fatto che siano così diffuse su quel lembo di terra - le troviamo in tutta la Valle dei Chincha - indica che più persone hanno agito in modo condiviso, con una pratica che sembra sia stata considerata da un intero gruppo sociale il modo più appropriato di interagire con l'Adilà. 

FOTO ©Adriano Forgione

     
  «Questo rituale ricorda la ricomposizione del corpo di Osiride tra gli Egizi. L'impiego delle vertebre impilate in questo rituale trova, difatti, corrispondenza allegorica nel mondo antico associato al simbolismo dello Djed, la colonna dorsale del dio Osiride, simbolo di Giustizia, Stabilità e Vita Eterna. In quanto amuleto legato alla vittoria sulla morte è relazionato alla manifestazione di colui che è ponte tra Cielo e Terra. La resurrezione di Osiride, infatti, nella forma del giovane dio solare Horus, suo figlio, è un simbolismo “kundalinico”, l’energia di resurrezione che nell’Induismo è correlata alla manifestazione del Corpo Glorioso attaverso l’attivazione dei 7 Chakra lungo la colonna vertebrale», spiega Adriano Forgione, direttore della rivista Fenix, esperto di Misteri della Storia e del Sacro.


Qual è il rapporto tra decomposizione e manipolazione del corpo post mortem? Secondo lo studio le parti del corpo del defunto continuavano a vivere ben oltre la morte biologica. Recenti ricerche sul aDNA (DNA antico) dei resti di una delle tombe suggerisce che provenissero da individui non locali. I dati sull’intero genoma sono stati raccolti da campioni di denti associati a due crani, trovati disarticolati.

Ovviamente non è stato possibile stabilire la relazione tra questi individui campionati per l’analisi genetica e le otto vertebre sui perni trovati nel chullpa. Tuttavia, gli studiosi hanno ipotizzato che si tratti di individui geneticamente più simili ai popoli antichi della costa nord peruviana. Si può supporre che il loro arrivo possa aver creato comunità cosmopolite, determinando nuove relazioni socio-politiche, che hanno reso necessaria una nuova forma di pratica funeraria: l’inserimento di pali di canne attraverso vertebre non locali. 

Da questo punto di vista, le vertebre sui pali potrebbero aver incarnato, all’interno dei chullpa, differenze sociali tra locali e no. In alternativa, anche le popolazioni non locali avrebbero potuto portare con sé le vertebre sui pali a Chincha. Tuttavia, saranno necessarie ulteriori analisi genetiche e isotopiche stabili per comprendere le origini e le identità degli individui selezionati per questa pratica. Da non sottovalutare, però, il fatto che il mantenimento dell’integrità dei cadaveri era fondamentale anche per le società al di fuori delle Ande. 

La “ricostruzione” di corpi depredati e disaggregati non era limitata al Sud America. Una pratica simile è stata riscontrata in Egitto. Un esempio lo troviamo nel sito di Kellis, a Ismant el-Kharab nell’oasi egiziana di Dakhle, occupato dal periodo tolemaico (332–30 a.C.) fino al 400 d.C., dove le mummie sono state depositate in camere tombali dotate di aperture, come nel caso dei chullpa di Chincha. Uno studio del 2004 documenta anche qui l’uso di bastoncini di legno, resina e lino per ricostruire i corpi, presumibilmente perturbati a seguito di un saccheggio. Le parti smembrate erano state steccate utilizzando costole a foglia di palma, che sono state anche frequentemente inserite nelle colonne spinali. Pur dovendo essere cauti nel tracciare questo confronto interculturale, le somiglianze tra i casi andini e quelli dell'Antico Egitto sono sorprendenti, poiché rivelano similitudini in un lasso di tempo che non corrisponderebbe con l'era coloniale in Perù e a una distanza di migliaia di chilometri  tra due culture separate da un oceano.


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Un’enorme formazione artificiale simmetrica, indica la presenza di una misteriosa civiltà dotata di sofisticate capacità ingegneristiche di adattamento al clima, almeno 3.600 anni fa, nella penisola arabica orientale…


a cura della redazione, 4 febbraio

Gli studiosi alla ricerca di fonti d’acqua sotterranee, per un progetto finanziato dall’Agenzia degli Stati Uniti per gli aiuti e lo sviluppo internazionale, hanno scoperto per caso i contorni di un insediamento artificiale, con una forma, una consistenza e una composizione del suolo in netto contrasto con le caratteristiche geologiche circostanti. La datazione dei campioni di carbone recuperati suggerisce che abbia almeno 3.650 anni. L’area paesaggistica, perfettamente simmetrica e direzionata, misura due chilometri per tre ed evidenzia tracce di contorni di "un’installazione umana".

Parliamo di una delle più grandi potenziali “città” scoperte nell’area e per di più sotterranea! È stata identificata utilizzando immagini satellitari avanzate in una zona desertica del Qatar, dove in precedenza si pensava che ci fossero poche prove di civiltà stanziali antiche. Il nuovo studio, pubblicato a fine gennaio 2022, sull’ISPRS Journal of Photogrammetry and Remote Sensing (PDF), contrasta con la narrativa secondo cui questa penisola era popolata solo da nomadi, e le prove mappate dallo spazio indicano che la civiltà che la edificò aveva una comprensione sofisticata di come utilizzare le acque sotterranee. La ricerca sottolinea, anche, un’abilità ingegneristica fuori contesto temporale, probabilmente dovuta alla necessità "critica", di chi viveva in quella “metropoli sotterranea”, di studiare l’acqua e salvaguardarla dalle fluttuazioni climatiche nelle zone aride.   

Utilizzando i normali strumenti di imaging satellitare, e attraverso l’osservazione della superficie terrestre, l’insediamento non era visibile dallo spazio. “Makhfia”, il nome attribuito dai ricercatori della University of Southern California Viterbi School of Engineering e del Jet Propulsion Laboratory della NASA - che si riferisce a un luogo invisibile nella lingua araba locale - è stato scoperto utilizzando apparecchiature molto sofisticate, che abbiamo solo oggi. Le immagini che ne hanno permesso il rilevamento sono state scattate grazie a un particolare radar ad apertura sintetica in banda L . 

Sebbene non sia possibile vedere a occhio nudo i resti dei monumenti o le mura dell'insediamento, le prove sono state rintracciate nel suolo circostante. Il sito ha una struttura e una composizione della superficie diverse rispetto al resto del terreno, una disparità tipicamente associata ad attività di semina. Secondo gli esperti, un insediamento di queste dimensioni in questa particolare area, che è lontana dalla costa dove si trovavano la maggior parte delle civiltà antiche, è insolito. Qui, oggi abbiamo una media di circa 110 gradi Fahrenheit nei mesi estivi. È come trovare prove di un ranch verdeggiante nel mezzo della Death Valley, in California, che risale a migliaia di anni fa. 

L’autore principale della ricerca, Essam Heggy, dell’USC Arid Climate and Water Research Center, descrive il sito come simile a una “fortezza circondata da un terreno molto accidentato”, rendendo l’area quasi inaccessibile. Questa scoperta ha importanti implicazioni storiche e scientifiche. Potrebbe essere la prima prova della presenza di una comunità sedentaria sconosciuta nell’area e forse la prova di conoscenze d’ingegneria avanzata anacronistiche per quel periodo di tempo. 

Alla sensazionale scoperta si aggiunge il mistero di chi fosse questa cultura e perché sia scomparsa. Soprattutto, gli studiosi ritengono che tale "mega insediamento" sia stato utilizzato per un lungo periodo, in funzione della dipendenza dalle acque sotterranee per sopravvivere. Un fatto che testimonia un’abilità tecnologica incredibile, date le complesse falde acquifere e il terreno aspro del Qatar. 

Ci sono prove evidenti che gli abitanti di questo insediamento praticassero l’assorbimento profondo delle acque sotterranee, accedendo alla preziosa risorsa per il loro sostentamento attraverso fratture nel terreno, al fine di utilizzare l'acqua per l’irrigazione delle colture e per le esigenze di vita quotidiana. Gli studiosi ritengono che una popolazione con conoscenze sufficienti per sfruttare tali risorse idriche sotto terra, imprevedibili e inaccessibili, scavando attraverso il calcare duro e la dolomite, sarebbe stata sicuramente in anticipo sui tempi nel mitigare la siccità all’interno di ambienti difficili. Ma soprattutto, con quali strumenti lo avrebbe fatto?

Perché la gente dovrebbe preoccuparsi delle rovine di questo antico insediamento? Perché secondo i ricercatori la capacità di questa cultura di mitigare le fluttuazioni climatiche potrebbe essere la nostra storia. Molti pensano che il cambiamento climatico sia qualcosa che ci attende nel futuro - prossimo - o che sia semplicemente avvenuto molto tempo fa, nel passato “geologico” della Terra. Questo sito, però, mostra che i nostri recenti antenati hanno fatto della sua mitigazione una chiave per la loro sopravvivenza. Come e perché resta un mistero da risolvere...


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Un misterioso ominide di 1,5 milioni di anni fa cambia la storia dell’evoluzione umana.…


a cura della redazione, 3 febbraio

Israele e il Levante sono il ponte terrestre naturale tra l’Africa e l’Eurasia. Qui non erano mai state trovate ossa fossili di ominidi della profonda preistoria. Né, fino a poco tempo fa, erano state trovate prove di utensili arcaici. Ora però, nella rift valley del Giordano, a Ubeidiya, è stata scoperta una vertebra di ominide, decisamente sproporzionata, di almeno 1,5 milioni di anni, associata ad asce di tipo acheuleano relativamente avanzate. Nello stesso luogo sono stati trovati anche strumenti di pietra primitivi, che risalirebbero a 3,3 milioni di anni fa. Questo significa che gli archeologi hanno scoperto una nuova specie, un anello mancante nell'evoluzione umana, e che le migrazioni in Africa avvennero in più ondate, in un lasso di tempo che le separa tra loro dai 200.000 ai 300.000 anni.

Nonostante gli scienziati abbiano stabilito che si tratti dell'osso di un nostro possibile antenato, il reperto risulta estremamente più grande rispetto a quello di un habilis erbaceo (simile a una scimmia) e sicuramente più grande anche degli erectus africani, come quello recuperato in Kenya, anni fa. Quello trovato vicino al Mar di Galilea sarebbe appartenuto a un bambino, ma è talmente “grosso” che gli studiosi ne ipotizzano una possibile statura media in età adulta intorno ai 2 metri. Lo studio su questo fossile di ominide, il più antico in Israele, è stato pubblicato il 2 febbraio scorso su “Scientific Reports” da un team internazionale guidato da Alon Barash, della Facoltà di Medicina Azrieli dell’Università di Bar-Ilan.

Il frammento di scheletro è stato dissotterrato nel 1966, ma solo ora lo si è riconosciuto per quello che è in realtà, cambiando i paradigmi della storia dell’evoluzione umana. L’osso trovato a Ubeidiya, a nord di Israele, dimostrerebbe, per la prima volta, una migrazione a ondate di ominidi arcaici dall’Africa durante il Gelasiano, il periodo più arcaico del Pleistocene. A detta dei paleoantropologi, appartiene a un corpo morfologicamente di tipo bipede e proviene dalla parte bassa della schiena, nota anche come regione lombare. Dopo aver fatto una comparazione delle tre vertebre presacrali inferiori (negli esseri umani moderni, nei Neanderthal, negli Australopitechi, e negli scimpanzé) e dopo aver escluso si trattasse di un animale, gli scienziati hanno stabilito la giovane età dell’ominide in base all’ossificazione. Il soggetto da cui proviene la vertebra non aveva finito di crescere. 

Come lo hanno stabilito? La vertebra preistorica non era completamente ossificata e proveniva da un ominide dall’altezza presunta di un metro e mezzo. Il suo peso complessivo sarebbe stato tra i 45 e i 50 chili. Prendendo a parametro l'ossificazione vertebrale dell'uomo moderno, gli studiosi in un primo momento hanno ipotizzato che il bambino del Pleistocene avesse dai 3 e ai 6 anni quando è morto, perché è a quell'età che termina in genere tale processo delle vertebre umane. Il che si tradurrebbe in dimensioni gigantesche inspiegabili. Secondo gli scienziati, potrebbe trattarsi di un modello di ossificazione ritardata, e in tal caso il bambino, pur restando un soggetto molto “robusto”, avrebbe avuto un’età compresa tra 6 e 12 anni alla morte. Un tentativo di adattare i reperti al paradigma convenzionale per non stravolgere tutto? 

La storia dell’osso, inizia nel 1959, quando un membro del Kibbutz Afikim di nome Izzy Merimsky stava demolendo un terreno in preparazione per l’agricoltura. Improvvisamente l'uomo si accorse che la sua macchina stava portando alla luce ossa, inclusi un teschio e alcuni denti. Non sapevano cosa fossero, perché erano irrimediabilmente fuori dal contesto archeologico. Comunque, Merimsky chiamò le autorità. Gli scavi iniziarono nel 1960 e divenne chiaro che il sito era “profondamente” preistorico. Nel 1966, l’archeologo Moshe Stekelis portò alla luce la vertebra che avrebbe cambiato la storia dell’evoluzione umana. Ma non subito. Per qualche motivo l’osso fu messo in una scatola con la scritta “Homo?” – con il punto interrogativo – e dimenticata lì. Dopo vent’anni, la paleoantropologa dell’Università di Tulsa Miriam Belmaker, che stava lavorando sulla ricostruzione del paleoclima dell’Ubeidiya preistorica, rianalizzò tutti i fossili trovati nel sito, per capire se ci fosse un animale tropicale e se l’area era ghiacciata o no all’epoca. Fu allora che riscoprì quel pezzo di spina dorsale. Bastò uno sguardo perché capisse che non era una scimmia. Da allora iniziò un’incessante studio comparativo su tonnellate di vertebre di antichi ominidi, umani moderni, iene, rinoceronti, leoni, scimmie e altri animali sospetti. “Non era un Australopiteco, non un elefante, non un gorilla e neppure un tritone. Ha caratteristiche distinte. Era un ominide bipede e di corporatura molto robusta”, dice Barash su “Haaretz”. 

Datato 1,5 milioni di anni, l’osso è il secondo fossile arcaico di ominide trovato al di fuori dell’Africa. I più antichi risalgono a 1,8 milioni di anni fa e sono stati rinvenuti a Dmanisi, in Georgia, con uno scarto temporale di circa 300.000 anni, il che dimostra l’esistenza di diverse ondate migratorie mai ipotizzate prima. Una scoperta che rende il nostro "lignaggio" sempre più torbido. Oggi per gli scienziati è palese, infatti, che il bambino arcaico trovato nella Valle del Giordano e l’Homo georgicus di Dmanisi non fossero della stessa specie. Inoltre la cultura degli strumenti di pietra del Georgicus è stata catalogata come di tipo oldowan primitivo, e non acheuleano avanzato. Il che porta gli studiosi a ipotizzare che l’ominide di Ubeidiya provenga da un’ondata migratoria separata rispetto a quelle nel Caucaso. Da dove venisse il piccolo "gigante" resta un mistero.


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Rinvenuti nel parco archeologico di Velia-Paestum i resti del più antico tempio arcaico dedicato alla dea, risalenti alle prime fasi di vita della città fondata intorno al 540 a.C. ...


Parco Archeologico Velia, 1 febbraio 

Scoperti nel parco archeologico di Velia-Paestum i resti del più antico tempio arcaico dedicato ad Athena risalenti alle prime fasi di vita della città fondata intorno al 540 a.C. Da anni si ipotizzava l'esistenza di una struttura sacra antecedente al tempio maggiore dell'Acropoli e gli scavi hanno riportato alla luce resti di muri, realizzati con mattoni crudi e intonacati, di quello che doveva essere un edificio rettangolare lungo quasi 20 metri. Ritrovate anche ceramiche dipinte, vasi con iscrizioni, frammenti metallici di armi e armature e due elmi, uno calcidese e un altro di tipo Negau - di epoca etrusca - in ottimo stato di conservazione. 

Sulla base di precedenti ricerche archeologiche avviate negli anni ’20 del secolo scorso, e proseguite con discontinuità fino agli anni ’90, si ipotizzava, anche se con forti dubbi, l’esistenza di una struttura sacra arcaica antecedente al tempio maggiore dell’Acropoli di Velia. In particolare si pensava ad una sua collocazione sul terrazzo più elevato della punta occidentale dell’Acropoli. I recenti scavi non solo hanno confermato l’esistenza di un edificio sacro ma ne hanno anche precisato la collocazione, la planimetria, la cronologia e il rapporto con le strutture più recenti. 

Gli archeologi del Parco hanno, infatti, riportato alla luce resti di muri realizzati con mattoni crudi, intonacati e fondati su zoccolature in blocchi accostati in poligonale, una tecnica utilizzata anche per le abitazioni di età arcaica rinvenute lungo le pendici dell’acropoli. Tali testimonianze disegnano un edificio rettangolare lungo almeno 18 metri ed ampio 7. La porzione interna della struttura è pavimentata con un piano in terra battuta e tegole, sul quale, in posizione di crollo, sono stati rinvenuti elementi dell’alzato, ceramiche dipinte, vasi con iscrizioni “IRE”, ovvero “sacro”, e numerosi frammenti metallici pertinenti ad armi e armature. 

Tra questi, due elmi, uno calcidese e un altro di tipo Negau, in ottimo stato di conservazione. “I rinvenimenti archeologici presso l’acropoli di Elea-Velia lasciano ipotizzare una destinazione sacra della struttura“, dichiara il Direttore Generale dei Musei e Direttore Avocante del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Massimo Osanna, nel comunicato stampa. Con tutta probabilità in questo ambiente vennero conservate le reliquie offerte alla dea Athena dopo la battaglia di Alalia, lo scontro navale che vide affrontarsi i profughi greci di Focea e una coalizione di Cartaginesi ed Etruschi, tra il 541 e il 535 a.C. circa, al largo del mar Tirreno, tra la Corsica e la Sardegna. Liberati dalla terra solo qualche giorno fa, i due elmi devono ancora essere ripuliti in laboratorio e studiati. 

Al loro interno potrebbero esserci iscrizioni, cosa abbastanza frequente nelle armature antiche, e queste potrebbero aiutare a ricostruire con precisione la loro storia, chissà forse anche l’identità dei guerrieri che li hanno indossati. Certo si tratta di prime considerazioni che già così chiariscono molti particolari inediti di quella storia eleatica accaduta più di 2500 anni fa. Gli scavi hanno anche chiarito la cronologia del principale tempio della città dedicato alla dea Athena. La costruzione del tempio maggiore, almeno di una sua prima fase, deve collocarsi cronologicamente dopo la struttura sacra riportata alla luce in questi ultimi mesi. In seguito, in età ellenistica, l’intero complesso riceverà una completa risistemazione con la realizzazione di una stoà monumentale che cingerà il tempio maggiore e il piano di uso si eleverà a coprire tutte le fasi precedenti.

La struttura del tempio più antico risale al 540-530 a.C., ovvero proprio gli anni subito successivi alla battaglia di Alaliafa notare Osannamentre il tempio più recente, che si credeva di età ellenistica, risale in prima battuta al 480-450 a. C., per poi subire una ristrutturazione nel IV sec. a C. È possibile quindi che i Focei in fuga da Alalia l’abbiano innalzato subito dopo il loro arrivo, com’era loro abitudine, dopo aver acquistato dagli abitanti del posto la terra necessaria per stabilirsi e riprendere i floridi commerci per i quali erano famosi. E alle reliquie da offrire alla loro dea per propiziarne la benevolenza, aggiunsero le armi strappate ai nemici in quell’epico scontro in mare che di fatto aveva cambiato gli equilibri di forza nel Mediterraneo.”

Il lavoro, grazie ad un’ampia squadra di professionisti e collaboratori, dà risposta a questioni aperte da oltre settant’anni, su cui si sono espressi nel corso del tempo numerosi eminenti studiosi. I risultati hanno chiarito topografia, architettura, destinazione d’uso e cronologia delle varie fasi dell’Acropoli, dall’età del Bronzo al periodo ellenistico. – dichiara l’archeologo del Parco, Francesco Uliano Scelza nello stesso comunicatoAdesso si lavora ad ulteriori progetti che la presente ricerca ha ispirato, di fruizione, studio e valorizzazione. Tra questi, la rimodulazione dell’Acropoli, da rendere visibile e visitabile in ogni sua parte e la rielaborazione dei luoghi espositivi della Cappella Palatinae e della chiesa di Santa Maria, in modo da rendere ancora più attraente il già suggestivo paesaggio di Velia”. In considerazione dei risultati importanti delle ricerche saranno programmate dal Parco nuove indagini per ricostruire la storia della colonia greca.


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