Esposti finalmente al pubblico quattro busti dell’età del ferro e un secchiello rituale in legno dei primi secoli a.C. trovati in un villaggio della Bretagna. È possibile che un tempo fosse un set con uno scopo religioso, profanato e bruciato...


a cura della redazione, 4 aprile

Quattro busti dell’età del ferro e un secchiello in legno ben conservato sono stati presentati al pubblico per la prima volta in una mostra al Musée de Bretagne - Les Champs Libre a Rennes, in Bretagna. Il secchio è l'unico in Bretagna ad essere stato trovato in un pozzo invece che in una tomba. I cinque oggetti sono stati scoperti nell’autunno del 2019 in uno scavo a Trémuson che si è rivelato essere una grande tenuta dell’élite gallica occupata e modificata tra il III e il I secolo a.C..
La prima scultura è stata trovata a faccia in giù, deposta accuratamente in una fossa scavata su misura nei pressi di una grande casa. È il busto in pietra di un uomo con i capelli e la barba accuratamente raffigurati. 

Questo personaggio apparteneva chiaramente a un'importante famiglia della città di Osismes che occupava allora questa parte della penisola bretone. Indossa infatti una torque, una collana formata da un'asta di metallo rifinita da sfere o dischi, concessa dalle città galliche in maniera onoraria ai loro membri più valorosi. La parte inferiore dell'opera, incompiuta, termina in un punto: originariamente doveva essere collocata nel terreno o in altro materiale. Viene interpretato come un'effigie destinata a perpetuare la memoria del defunto e la grandezza della sua famiglia. 

LO SAPEVI CHE - Meno di trenta sculture di questo tipo sono registrate su tutto il territorio nazionale, quasi la metà in Bretagna. Le quattro opere di Trémuson fanno eco ai quattro busti scoperti più di vent'anni fa durante gli scavi della residenza aristocratica gallica di Paule, nei pressi di Carhaix, raffiguranti un bardo con la sua lira.

Dopo aver scoperto la prima scultura, gli archeologi hanno deciso di esplorare il pozzo dietro la casa, profondo 6 metri. Qui sono state rinvenute altre tre sculture a torso nudo, modellate più grossolanamente. I quattro busti recano tutti tracce di bruciature. È possibile che un tempo fosse un set con uno scopo religioso, profanato e bruciato nel I secolo a.C., utilizzato dai druidi, i sacerdoti, depositari della cultura tradizionale celtica, dello studio degli astri e dei loro movimenti, della grandezza del mondo e della terra, della natura delle cose, della forza e potestà degli dei immortali.

Il terreno impregnato d’acqua del pozzo abbandonato aveva conservato gli oggetti, inclusa una grande quantità di legno, gettato al suo interno: assi carbonizzati e altri elementi architettonici tra cui pali e travi. Le assi potrebbero aver fatto parte della copertura del pozzo nel suo periodo di massimo splendore. In totale, il team ha recuperato 460 pezzi di legno impregnato d’acqua, la maggior parte dei quali frammentari e parzialmente carbonizzati dal fuoco. In fondo al pozzo c’erano i tre busti, pezzi di mobili in legno, un maglio di frassino, un secchio cilindrico di quercia, diverse doghe e l’eccezionale secchio da cerimonia a treppiede.

Realizzato in legno di tasso, circondato da due cinghie di bronzo e decorato con piatti in bronzo traforati, il secchio a treppiede risale alla seconda metà del II secolo a.C.. Veniva probabilmente utilizzato durante cerimonie druidiche per servire una bevanda sacralizzata. Il secchio è quasi completo, mancano solo alcuni piccoli pezzi traforati e accenti di metallo. Ha un foro di scarico sul fondo che ha ancora il suo tappo d’acero in posizione. Il maglio era frammentato a causa di una frattura nella mortasa. Ha anche perforazioni da falegnameria, segni visibili di una lama da pialla sul lato inferiore della testa, e piccoli tasselli utilizzati per rinforzare le doghe nei loro punti di connessione, ancora saldamente in posizione. I fragili pezzi di legno sono stati imbevuti di PEG (soluzioni di glicol polietilenici) per rimuovere l'acqua nelle celle, sostituendola con una sostanza cerosa per impedire al legno di deformarsi e restringersi mentre si asciuga. Il processo è durato due anni. Conservato e stabile, il secchio sacerdotale, insieme alle quattro sculture, rimarrà in esposizione fino al 4 dicembre 2022.


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Scoperto nel villaggio di Çitli il primo esempio d gioiello da polso con raffigurazioni figurali dell'antico popolo indoeuropeo, realizzato 3.300 anni fa...


a cura della redazione, 27 marzo

Nel 2011 un uomo fece un’insolita scoperta archeologica, mentre arava la sua fattoria nel villaggio di Çitli, nella Turchia centro-settentrionale. Nonostante le pesanti macchine agricole lo avessero frantumato in tanti pezzi, si rese conto che aveva tra le mani un oggetto molto antico. Ne raccolse tutte le parti e le portò al Museo di Çorum. Gli esperti lo hanno identificato come un raro braccialetto del XIII secolo a.C.. Il luogo esatto del ritrovamento è rimasto sconosciuto, poiché il contadino aveva arato cinque campi quel giorno, e nonostante successive indagini archeologiche non sono stati rinvenuti in quei luoghi altri manufatti. Dopo un ampio restauro, gli esperti hanno scoperto dalle raffigurazioni figurali presenti sul bracciale che appartiene all’antica civiltà ittita, l’unico ritrovato sino ad ora, costituito da una lunetta ellittica di metalli preziosi, una forma in precedenza presente solo nei sigilli ad anello di questo popolo. Il misterioso manufatto è finalmente stato esposto al pubblico, per la prima volta, al Museo Archeologico di Çorum, come riporta il Daily Sabah

LO SAPEVI CHE - Le divinità ittite erano molte: la storia lo tramanda come il popolo dei mille dei. Essi facevano propri tutti quelli venerati dai popoli che conquistavano, in quanto credevano che questo conferisse loro più potere. Inoltre gli ittiti fecero proprie le diverse divinità anatoliche, chiamandole con il nome hattico. Nel Pànteon ittita la dea Ishtar era identificata con Shaushka, raffigurata con le ali, in piedi su un leone; aveva due seguaci, Ninatta e Kulitta. Fu venerata nel Regione del Toro, soprattutto a Samuha. Il re ittita Hattusilis III la prese come sua dea protettrice. Tale divinità, cui venvano attributi al contempo attribti di compassione e giustizia, aveva anche attributi maschili: poteva punire i bestemmiatori e gli autori di spergiuro con la riassegnazione di genere. Nei testi ittiti, si trova spesso accompagnata da  Sintal-wuri, Sintal-irti e Sintal-taturkani, i cui nomi hurriti si riferiscono tutti al numero sette. È nella processione degli dei Yazilikaya, santuario di Hattusa, la capitale dell'impero ittita tra il 1700 a.C. e il 1200 a.C. (si trova a 70 miglia a sud-ovest del sito di ritrovamento), la dea è raffigurata con le sue due ancelle.

L’antico oggetto, di cui manca una sezione al centro, è realizzato in una lega di rame, stagno e arsenico e misura circa 7 centimetri di diametro nel punto più largo. È formato da una fascia modellata a forma ellittica con le punte piegate all’indietro e forgiate insieme a formare un anello. Una piastra montata sull’ellisse è ornata da una scena di figure in rilievo eseguita con la tecnica dello sbalzo, incorniciata da un bordo di semicerchi e linee. 

LO SAPEVI CHE Gli Ittiti erano un antico popolo indoeuropeo che abitava la parte centrale dell’Asia Minore nel II millennio a.C. e il più noto degli antichi popoli anatolici. Il primo riferimento si trova nell’Antico Testamento, dove vengono menzionati come Chittim o Hitti, da cui ebbe origine in greco chetaios (o chettaios) che in latino diventò hetaeus o hettaeus. Il termine venne ripreso in mano da Lutero che lo tradusse come Hethiter in tedesco, passato poi in italiano come Ittita.

Al centro del rilievo a sbalzo è posta una figura stante, cui segue una processione di libagioni che si muove verso l’interno da entrambe le estremità dell’ellissi. Su i due lati della fascia, sia a sinistra sia a destra, è inciso una sorta di altare con gambe ricurve, che terminano con una zampa di animale. 

LO SAPEVI CHE - Agli dei veniva offerto da mangiare, anche per mezzo di sacrifici animali. Questo è testimoniato dalla presenza di magazzini attorno ai templi. Solo dopo che le divinità avevano mangiato, il popolo ed i sacerdoti potevano prendere parte al banchetto. Ishtar era la divinità femminile più importante nella civiltà assiro-babilonese. Era dea dell’amore e della guerra, sorella gemella del Sole (Samash) e figlia della Luna (Sin), e nel culto astrale si identificava con Venere. I sumeri la assimilarono con la loro Inanna, dea della madre terra e della fecondità, e il culto di Ishtar si diffuse poi anche fuori dalla Mesopotamia ai popoli vicini: in tutta l’Asia occidentale Ishtar divenne la personificazione della fertilità e della maternità. Fu venerata da semiti, ittiti, hurriti, fenici, siriani; penetrò anche nel mondo greco-romano col nome di Astarte. Fu protagonista di numerosi poemi epico-mitologici, fra cui quello della sua discesa agli Inferi e quello dell’epopea del semidio Gilgamesh.

I due “altari” sono drappeggiati con un telo che sembra coprire le offerte. Sul lato sinistro di ciascuno di essi sono posizionate due figure femminili (di una rimane solo la parte posteriore della testa) che si snodano verso destra, con il braccio sinistro che porta qualcosa, mentre il destro è visibilmente piegato verso l’alto. Di fronte a loro c’è un’altra figura con tratti più definiti. Le sue gambe sono di profilo e rivolte verso destra, mentre il busto è posizionato frontalmente. Indossa un indumento in due pezzi con una sorta di gonna, un mantello. Sulla sua spalla destra si intravede un’ala. Tutti questi particolari sono stati sufficienti per identificare la figura centrale come la dea Ishtar. Per gli archeologi, invece, le due figure femminili di fronte alla dea sono Ninatta e Kulitta. Una scena simile era stata trovata in precedenza su alcuni sigilli ittiti e rilievi rupestri.


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a cura della redazione, 28 marzo

Nei pressi dell’antica città di Uruk, un team internazionale di archeologi del Ministero delle Antichità iracheno e dell’Istituto Archeologico Tedesco (DAI) ha recentemente recuperato una barca realizzata in bitume e materiale organico, documentandola digitalmente in tre dimensioni mediante fotogrammetria. Era stata scoperta per la prima volta nel 2018 nella zona archeologica intorno a Uruk durante un programma di documentazione sistematica dei numerosi resti di canali, campi agricoli, insediamenti e siti di produzione che punteggiano i dintorni della capitale sumera. I bordi della barca erano stati scoperti dall’erosione e da allora gli archeologi hanno tenuto d’occhio le sue condizioni. Il mese scorso è iniziata l’operazione di salvataggio. 

LO SAPEVI CHE Uruk, conosciuta anche come Warka, era un’antica città sumera, situata lungo il letto oggi prosciugato del fiume Eufrate. Secondo l'elenco dei re sumeri, fu fondata dal re Enmerkar intorno al 4500 a.C.. Era il più grande insediamento della Mesopotamia meridionale. Svolse un ruolo di primo piano nella prima urbanizzazione di Sumer a metà del IV millennio a.C., emergendo come un importante centro abitato fino a quando non fu abbandonato poco prima o dopo la conquista islamica del 633–638 d.C. 

Si tratta di una barca conservata in materiale organico (canna, foglie di palma o legno) completamente ricoperta di bitume. È lunga 7 metri e larga fino a 1,4 metri. Non è più spesso di 1 centimetro in molti punti. I resti organici non sono più conservati e sono visibili solo come impronte nel bitume. Il contesto archeologico mostra che affondò sulla riva di un fiume che da allora si è insabbiato, probabilmente circa 4000 anni fa, ed è stato ricoperto da sedimenti. La barca è stata ricoperta da un guscio di argilla e gesso per la stabilizzazione direttamente durante lo scavo e potrebbe quindi essere recuperata in gran parte completa. In conformità con la legge irachena sulle antichità, è stata portata all’Iraq Museum di Baghdad per ulteriori studi scientifici.


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Fino a un quarto di tutte le impronte sulle pareti di antiche caverne in Spagna furono realizzate da piccoli umani, anche neonati...

I ricercatori hanno scoperto quella che è forse l'opera d'arte più antica del mondo, riproducendone una scansione tridimensionale, su un promontorio roccioso a Quesang sull'altopiano tibetano


a cura della redazione, 25 marzo

Negli ultimi decenni, è stato identificato un numero crescente di impronte di mani umane sulle pareti delle caverne, tale da entrare in competizione con altre forme di arte rupestre: 750 rappresentazioni distribuite in Francia, Regno Unito, Spagna e Italia, che costituiscono un corpus nutrito di indizi su usi e costumi del Paleolitico. Un recente articolo pubblicato sul Journal of Archaeological Science da Verónica Fernández-Navarro e Diego Garate, dell'Università della Cantabria, insieme a Edgard Camarós, dell'Università di Cambridge, ha iniziato ad analizzare alcune di quelle impronte da una nuova e intrigate prospettiva. Nella loro ricerca, gli studiosi hanno preso a campione cinque grotte in Spagna (Fuente del Salín, Castillo, La Garma, Maltravieso e Fuente del Trucho), scoprendo che la maggior parte delle impronte di mano "umana" riprodotta su quelle pareti di pietra furono realizzate soffiando polvere di pigmento attraverso un osso cavo o una canna su mani talmente piccole ce avrebbero potuto essere solo di bambini, anche piccolissimi, oppure di nani. Il che cambia la prospettiva di chi realizzò i disegni, e l'arte rupestre preistorica in generale, registrati in tutto il mondo. Sino ad oggi, gli scienziati erano generalmente d'accordo sul fatto che fossero stati realizzati da uomini adulti, o appena adolescenti, appartenenti a un gruppo elitario a scopo iniziatico. In questo nuovo studio, i ricercatori hanno trovato prove che suggeriscono che fino a un quarto di tutte le impronte presenti sulle pareti delle caverne furono realizzate usando mani dalle dimensioni talmente piccole, e alcune sono state attribuite a bambini anche di pochi mesi. Perché tanta prevalenza di bambini? Quale poteva essere il loro ruolo in seno al contesto rituale cui sono stati collegati tali stampi? 

Attualmente, nell'arte paleolitica europea sono note 56 grotte con motivi a mano umana. Questi contengono un totale di 769 mani, di cui il 90% sono immagini negative o stencil, il 9% sono immagini o impronte positive e l'1% sono rappresentazioni miste. Le grotte con questi motivi sono concentrate in due aree principali, la Spagna settentrionale e la Francia meridionale. Per la precisione, 30 delle grotte si trovano in Francia, 23 in Spagna, 1 a Gibilterra e 2 in Italia.

Storicamente, i primi tentativi di avvicinamento alla presenza dei bambini nelle popolazioni paleolitiche sono stati considerati attraverso gli studi antropologici di resti ossei nei contesti mortuari di siti come: Lagar Velho in Portogallo, Sungir in Russia, Dolní Věstonice in Moravia, Kostenki in Russia, Krems in Austria, Abri Pataud e La Madeleine nella Dordogna francese, e la Grotta des Enfants in Italia, nonché ritrovamenti di resti di bambini umani. Anche gli studi etnologici hanno avuto un ruolo importante per sintonizzarsi con le interconnessioni e le sovrapposizioni tra il mondo degli adulti e quello dei bambini tra cacciatori-raccoglitori e altre società “tradizionali” e il possibile ruolo di questi bambini all'interno delle loro comunità. Studi recenti hanno gradualmente introdotto la considerazione dei bambini come generatori della documentazione archeologica. Nel caso del Paleolitico si sono concentrati sulla ricerca di prove dell'apprendimento nella riduzione litica; l'interpretazione di alcuni oggetti come giocattoli; e la trasmissione della conoscenza delle attività artistiche, come l'incisione e arte parietale.

L'opera d'arte più antica è una sequenza di mani e impronte scoperte sull'altopiano tibetano. Le stampe risalgono alla metà del Pleistocene, tra 169.000 e 226.000 anni fa, da tre a quattro volte più antiche delle famose pitture rupestri in Indonesia, Francia e Spagna che risalgono a un periodo compreso tra i 45.000 e i 30.000 anni fa. Una scoperta del 2018, annunciata a settembre 2021, e che ha lasciato aperte le. più diverse interpretazioni del valore simbolico attribuito alle impronte delle mani, lasciati dagli ominidi centinaia di migliaia di ani prima, e non a caso si trattava, anche allora, di di impronte individui moto giovani. Bambini di Homo sapiens?

I ricercatori hanno notato che, invece di appoggiare le mani sul muro, la maggior parte delle stampe era stata eseguita tenendo la mano a una leggera distanza dalla parete, generando una sorta di stencil con un aspetto leggermente 3D. Nel replicare la tecnica, gli studiosi hanno scoperto che lo stampo risultava essere leggermente più grande della "mano matrice" utilizzata per crearlo. Hanno quindi studiato da vicino centinaia di impronte cercando di riprodurle con la stessa procedura utilizzata anticamente. Misurazioni accurate hanno indicato che molte delle mani appartenevano a bambini, compresi neonati e bambini d pochi anni, o comunque a individui molto minuti. L'abbondante ed omogenea partecipazione dei bambini dai quattro anni di età e almeno fino ai nove anni, suggerisce che individui di tutte le età prendessero parte all'attività grafica e che la creazione di arte rupestre potrebbe quindi essere stata un'azione collettiva delle società preistoriche.


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a cura della redazione, 18 marzo

Pochi giorni fa è emerso un altro pezzo di storia dagli scavi in corso nell'area archeologica di Castro, in località "Capanne", nel Basso Salento, dove da anni sono in corso le indagini archeologiche per portare alla luce i resti del tempio di Minerva e dell'imponente statua scultorea del IV secolo a.C. dedicata al culto della Dea. Nel 2015 erano stati portati alla luce il busto e numerosi frammenti di una statua che la ritrae. Ora, a 3 metri di profondità dal punto in cui è avvenuto il ritrovamento della parte superiore, gli archeologi hanno trovato la parte inferiore del manufatto. Il reperto ha una lunghezza di circa 160 centimetri e sarebbe lesionato in due parti: mostra il resto del peplo e un accenno del piede destro della dea. 

Vogliamo ricordare che il termine Minerva è di derivazione etrusca. La Dea della Saggezza degli Etruschi, infatti, si chiamava Menrva e faceva parte della trinità principale, insieme a Tinia e Uni, poi riflessa nella triade romana Giunone, Giove e Minerva. Nella mitologia greca, la corrispondenza diretta è con la Dea Meti, la Dea  della Giustizia, secondo molti di origine libica trapiantata ad Atene, Grande Madre e Dea dai tre volti, uno dei quali un po' terrifico e guerriero. La natura che crea, accresce e distrugge. La Dea Meti a seguito di guerre e battaglie perse tono e fu sostituita da sua figlia Athena, in realtà uno dei suoi aspetti assunto a ruolo primario. Pochi sanno che la Dea portava uno scudo di aegis cioè di pelle di capra, tratta dalla capra Amaltea, già usata da Zeus come mantello armatura. L'etimologia del nome etrusco è collegata a Meneswā "Colei che misura", una divinità antica italica pre-etrusca, il cui nome contiene la radice men-. Carl Becker notò essere legata a parole di memoria (cfr. greco "mnestis"/μνῆστις 'memoria, ricordo, ricordo'), e più in generale alla 'mente' nella maggior parte delle lingue indoeuropee. 

LO SAPEVI CHE Anat è la dea cananea della guerra, della saggezza e dell'amore. È una guerriera e un'arciera.
Era rinomata per il suo carattere violento, le sue inclinazioni litigiose e la sua insaziabile spinta alla vittoria. Eppure il suo più grande attributo era l'integrità, si sarebbe ribellata e avrebbe litigato con El, se la divinità principale si fosse comportata ingiustamente. Sulla costa occidentale e a Cartagine, era conosciuta come Tanit.

Tale Dea è l’equivalente di Iside nell’Antico Egitto, della Sarasvati Indù, della Ishtar mesopotamica, della Nahid persiana, dell’Anat fenicia, della Pria proto-indoeuropea, della Inanna sumera e dell’Anahita zoroastriana. Gli scavi, compiuti in base ad una concessione Soprintendenza-Comune di Castro, sono finanziati da un gruppo di privati sotto la direzione scientifica del professor Francesco D'Andria dell'Università del Salento e coordinati dagli archeologi Amedeo Galati e Alessandro Rizzo. Le ricerche cercano di ricostruire il volto millenario del luogo dove Enea approdò in fuga da Troia. Gli studi condotti lasciano pensare che i luoghi nei quali sono stati ritrovati i reperti, nelle sale del castello di Castro, che ospita la sede del Museo archeologico, siano riconducibili alla rocca con il tempio di Minerva, dove sbarcò l'eroe progenitore di Roma. La descrizione del luogo giunge a noi dall’Eneide, il celebre poema epico scritto dal poeta latino Virgilio, che narra come Enea, approdato sulla costa, vide dal mare un tempio dedicato appunto alla dea Minerva.


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Gli archeologi scoprono, in una tomba consacrata al Dio dagli Occhi Chiusi, gli strumenti di un chirurgo della cultura Sicán...


a cura della redazione, 22 marzo

Un fascio funerario scoperto in una tomba del periodo del Medio Sicán (900-1050 d.C.) nel sito archeologico di Huaca Las Ventanas nella regione di Lambayeque in Perù include una serie di strumenti che indicano che il defunto era un chirurgo: una cinquantina di coltelli di diversi tipi, aghi di varie dimensioni con i rispettivi fili e residui di corteccia utilizzata per infusi e analgesici. Questa è la prima scoperta del genere mai fatta a Lambayeque o nel nord del Perù. Il fascio funerario è stato portato alla luce dagli archeologi del Museo Nazionale di Sicán in uno scavo nella necropoli meridionale di Huaca Las Ventanas. È stato rimosso insieme al terreno e al contesto sabbioso per proteggerlo dall'erosione e dalle inondazioni dell'adiacente fiume La Leche. Il materiale recuperato era stato trasportato al museo. Solo un decennio dopo, però, una sovvenzione del National Geographic Donation Fund concessa al museo nel 2021, ha permesso di esplorare completamente la sepoltura. Lo scavo ha avuto luogo tra ottobre 2021 e gennaio di quest'anno. All'interno del fascio c'era una maschera d'oro dipinta con cinabro, un grande pettorale di bronzo, ciotole di rame dorato e un indumento simile a un poncho con lastre di rame. Sotto il poncho c'era un vaso di ceramica con un doppio beccuccio e un manico a ponte ricurvo con una piccola figura all'apice che rappresentava il Re Huaco. 

Il kit chirurgico contiene un set completo di punteruoli, aghi e coltelli di varie dimensioni e configurazioni.Ci sono circa 50 coltelli in totale. La maggior parte sono una lega di bronzo ad alto contenuto di arsenico. Alcuni hanno manici in legno. C'è anche un tumi, un coltello cerimoniale con lama a mezzaluna. Accanto al tumi c'era una planchette di metallo con un simbolo associato a strumenti chirurgici. Accanto alla planchette sono state rinvenute due ossa frontali, una adulta e una giovanile. I segni sulle ossa indicano che sono stati deliberatamente tagliati con tecniche di trapanazione. Ciò ha confermato che gli strumenti erano destinati all'uso in chirurgia. Sebbene gli strumenti siano unici per la regione, un ritrovamento simile è stato fatto a Paracas nel 1929. Gli strumenti sono tuttavia realizzati con materiali diversi. Le lame del set di Paracas sono state realizzate con ossidiana vulcanica affilata.

È la prima scoperta di questo tipo qui a Lambayeque e nel nord del Paese. Risale dall'anno 900 al 1050 dopo Cristo, di appartenenza culturale del Medio Sicán. Non stiamo solo documentando figure d'élite di culto legate alla metallurgia, ma anche specialisti e interventi chirurgici”, ha sottolineato il Direttore del Museo Nazionale Sican Carlos Elera su Andina.

Un pezzo di corteccia di un albero sconosciuto trovato nel fascio potrebbe essere stato usato per scopi medicinali, quali infusioni analgesiche o antinfiammatorie, come la corteccia di salice bianco che ancora oggi è considerata fondamentalmente un tè di aspirina.

Sarà studiato per scoprire a quale specie appartenesse, quale uso avesse allora come oggi. Ovviamente, sarà necessario anche un confronto dettagliato con gli strumenti chirurgici rinvenuti a Paracas. Ce ne sono alcuni che coincidono e altri no. Tra i reperti di Lambaye, abbiamo l'asta del Dio della Maschera con gli Occhi Chiusi, un elemento sempre presente”, che deve essere antropologicamente contestualizzato secondo lo studioso.

Poco distante, nella Huaca Santa Rosa de Pucalá, situata nell'omonimo distretto, nella regione di Lambayeque, i ricercatori hanno scoperto quattro tombe contenenti i resti di bambini e adolescenti sepolti come offerte al momento della costruzione della prima delle tre contenitori in stile Wari con una forma a "D". Questi reperti fanno parte di un possibile rituale svolto al momento dell'inizio della costruzione di questi spazi religiosi in stile wari. Nel secondo recinto a forma di “D” è stata scoperta una tomba con offerte legate ad una tradizione locale durante la Fase 3 di Santa Rosa (850 – 900 dC). La tomba conteneva una brocca con iconografia Mochica, una bottiglia nel noto stile del primo Sicán (dalla valle di La Leche) o in stile proto-Lambayeque (dalla valle di Jequetepeque), una pentola con decorazione paleteado e un coltello o tumi con una lama a forma di mezza luna.

Tali scavi hanno rivelato, per la prima volta, l'esistenza di un tempio del periodo formativo , contemporaneo alla fine della cultura Chavín, che ha caratteristiche totalmente diverse da quelle precedentemente trovate a Lambayeque. Costruito con muri fatti di fango come cassaforma, che includono mazze di argilla come prototipi di mattoni all'interno delle mura, ha una pavimentazione molto elaborata, soffitti realizzati con resti vegetali e mostra prove dell'incenerimento di oggetti. Secndo gli studiosi questo tempio fu costruito da un gruppo umano con caratteristiche locali legate alle montagne , a dimostrazione che negli anni dal 400 al 200 a. C. c'erano diverse comunità sulla costa con interazioni verso la montagna e che mostrano anche marcate differenze con i gruppi del Periodo Formativo che si trovano nella parte bassa della valle, a Collud e Ventarrón.


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a cura della redazione, 21 marzo

Gli archeologi li chiamano “cucchiai”. Hanno un’età compresa tra 2.200 e 2000 anni e sono stati trovati a Crosby Ravensworth nell’Eden Valley nel 1868. Secondo l’edizione del 1869 del "The Archaeological Journal", sono stati trovati da un contadino vicino a una sorgente d’acqua. C’era un piccolo tumulo vicino alla sorgente, nel quale sono stati trovati pezzi di pietra da taglio che erano stati evidentemente sottoposti all’azione del fuoco, e alcune tracce di cenere e di terra bruciata terra. La cosa strana è che tali oggetti non sono stati trovati insieme, ma a sette metri di distanza l’uno dall’altro nel terreno paludoso che circonda la sorgente e a una profondità di circa mezzo metro. Non ce ne sono molti altri simili, ne sono stati trovati solo 25 tra Gran Bretagna, Irlanda e Francia, e sempre in coppia, tutti con la stessa “decorazione” di base: uno dei due è inciso con linee che lo dividono in quattro quarti e l’altro ha un foro praticato su un lato. 

Hanno un "manico" poco profondo, simile a un’estremità abbastanza grande da poter essere afferrata tra il pollice e l’indice. Su entrambe le due impugnature è inciso un cerchio: uno è più piccolo e al suo interno sono tratteggiate due forme, simili a embrioni, unite da una linea irregolare, che ricordano lo Yin e lo Yang; l'altro, più grande, contiene un disegno più complesso, nel quale sembra essere circoscritto un triskele. Non sono ovviamente fatti per mangiare. Si è ipotizzato, però, abbiano uno scopo rituale, forse battesimale. Il British Museum, che li costudisce, suggerisce che potrebbero anche aver avuto uno scopo divinatorio, con il liquido che veniva sgocciolato dal cucchiaio con il foro sul cucchiaio diviso in quattro quarti. 

In questo caso, tra le ipotesi, gli studiosi suggeriscono che possano essere stati utilizzati acqua, birra o sangue, o comunque un liquido piuttosto viscoso, forse anche l'albume d’uovo. Nessuno dei 25 cucchiai è stato trovato, per quanto ne sappiamo vicino a insediamenti. La maggior parte proviene da paludi, fiumi e sembra siano stati sepolti deliberatamente. Alcuni sono stati trovati persino nelle tombe. D’altronde per i Celti, come per altri popoli prima di loro, la terra acquosa era una terra di mezzo, una sorta di portale per comunicare con gli inferi. E il fatto che oggi continuiamo a buttare monete in pozzi, fontane o sorgenti suggerisce che questo istinto è ancora profondamente radicato in noi.


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a cura della redazione, 20 marzo

Un enigmatico oggetto rituale, dell'età del bronzo, è stato scoperto in una sepoltura della cultura Tagar nella Siberia meridionale. La tomba è stata portata alla luce nel cimitero di Kazanovka nel bacino di Minusinsk nel 2020. Al suo interno era sepolto il corpo di una donna, in un kurgan diviso in due recinti da lastre verticali di arenaria. In un'apparente continuazione dei rituali funebri della cultura Karasuk, la donna era stata sepolta con pezzi di carne e le carcasse di un vitello e di una pecora. Accanto alle carcasse sono stati trovati un coltello di bronzo e un punteruolo in una custodia di pelle. La testa di un cavallo era stata posta sul coperchio della tomba, costituita da una fossa rettangolare con un bordo a gradini. Grandi pietre ricoprivano il perimetro con piccole lastre che riempivano gli spazi vuoti. Il corpo era sepolto in posizione supina, la testa girata a ovest e le braccia tese lungo il corpo. 

Era decorato in modo molto elaborato: accanto al suo bacino c'era uno specchio circolare di bronzo con tracce di un sacchetto di pelle rossa. Placche di bronzo e spille sono state trovate accanto alla spalla destra. Vicino al suo gomito destro, invece, è stato rinvenuto lo strano oggetto, la cui parte superiore era una “X” composta da tubolari filettati di bronzo e perline a cappuccio intervallate da perline di corniola. Dalla parte inferiore, anch’essa realizzata con perline tubolari di bronzo e di argillite bianca, pendeva una zanna di cinghiale. 

Al centro, gli archeologi hanno rilevato brandelli di quella che potrebbe essere stata una borsa di stoffa di seta e il frammento di costola umana. Altre sepolture nella regione hanno perline, ossa di animali, zanne di cinghiale o cervo muschiato e artigli di uccelli, rinvenute quasi sempre in associazione all'interno di sepolture femminili. Mai prima d'ora, però, in un contesto tagario così antico, gli archeologi avevano trovato qualcosa di simile. La spiegazione potrebbe venire da parallelismi etnografici con altre culture della zona. 

La cultura Tagar, che prende il nome da un'isola nel fiume Yenisei ed era la cultura archeologica dominante nel bacino di Minusinsk in Khakassia dalla tarda età del bronzo all'età del ferro, cioè dall'VIII al III secolo a.C. circa, fu preceduta dalla cultura Karasuk dell'età del bronzo e dalla cultura di Tashtyk, che esistevano parallelamente alla cultura degli Sciti in Crimea e sulle coste settentrionali del Mar Nero. In questa prospettiva, l’osso umano custodito nell'amuleto potrebbe essere assimilato a un culto sciamanico, come quello praticato dal popolo Yukaghir, lungo il bacino del fiume Kolyma nelle regioni dell'estremo nord-est della Siberia, del quale è stata documentata la tradizione di sezionare il corpo di uno sciamano in amuleti.


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Portate alla luce nell'antica necropoli tentacolare egizia antiche sepolture altamente decorate con simboli e geroglifici rituali di oltre 4.000 anni fa...


a cura della redazione, 19 marzo

Gli archeologi hanno scoperto cinque tombe di alti funzionari nelle amministrazioni faraoniche dell’Antico Regno e del Primo Periodo Intermedio nella necropoli di Saqqara, 30 chilometri a sud-ovest del Cairo. Le pareti sono ricoperte da dipinti di alta qualità in ottime condizioni, i colori ancora vividi, nonostante siano trascorsi più di 4.000 anni, in alcuni passaggi di particolare rilevanza cultuale, indicano la voluta scelta cromatica del bianco, del rosso e del nero. 

Le tombe sono state trovate all’inizio di questo mese dalla piramide di Merenre Nemtyemsaf I (costruita intorno al 2490 a.C.). A segnalarlo, una nota del Ministero del Turismo e Antichità egiziano. I sepolcri in pietra sono riemersi durante scavi effettuati nell'area sul lato nord-orientale della piramide e sono stati ispezionati dal ministro del Turismo e delle Antichità egiziano, Khaled El-Enany, e dal segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità, Mostafa Waziri.

Sebbene gli studiosi abbiano lavorato nel sito dallo scorso settembre, le tombe sono state scoperte solo all'inizio di questo mese vicino alla piramide a gradoni di Djoser. Per accedervi è necessaria una profonda discesa attraverso pozzi funerari, le cui pareti sono rivestite da geroglifici ben conservati raffiguranti animali sacri, materiali rituali come i sette oli sacri, offerte di cibo, iscrizioni geroglifiche, urne e simboli dell'aldilà. I giornalisti hanno dovuto essere calati nel pozzo funerario profondo con una fune su un argano.

Alcune delle tombe risalgono all'Antico Regno (2649 - 2150 a.C.), mentre altre risalgono al Periodo successivo, noto come Primo Intermedio (2150–2030 a.C.). Ogni tomba contiene il riferimento a titolature legate a governanti regionali, sacerdoti e alti funzionari di palazzo. La prima comprende un profondo pozzo funerario e una camera decorata con immagini che includevano altari e una rappresentazione del palazzo, nonché un sarcofago scolpito nel calcare. Nella nota diffusa dal ministero, si legge che il lungo corridoio porta a una camera appartenuta a un dignitario di nome "Iry", riccamente decorata. La seconda, caratterizzata da un pozzo funerario rettangolare, apparteneva, verosimilmente, alla moglie di un uomo di nome “Yaret”. 

La terza camera di sepoltura è stata attribuita a un sacerdote e purificatore, “Pepi Nefhany”, il cui pozzo funerario è profondo sei metri. Un quarto pozzo, della stessa misura, sembrerebbe essere stato costruito per una donna di nome “Petty”: "l'unica responsabile dell'abbellimento del re e sacerdotessa di Hathor". La quinta tomba dovrebbe essere stata allestita per un uomo di nome “Henu”, "sorvegliante e supervisore della casa reale" ed è costituita da un pozzo funerario rettangolare profondo sette metri. All’interno delle tombe gli archeologi hanno trovato più di 20 sarcofagi, oltre a numerose figurine, barche di legno, ceramiche, maschere e altri manufatti. Gli scavi sono ancora in corso. Quali altri misteri svelerà l'antica città del morti?


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a cura della redazione, 19 marzo

La visionaria mappa del mondo creata dal monaco del XV secolo Fra Mauro è stata digitalizzata e ora può essere esplorata in dettaglio online con una fantastica profondità e ampiezza di materiale esplicativo in italiano, inglese e cinese. Realizzata nel monastero di San Michele a Isola, intorno al 1450, la mappa ha adottato un approccio completamente nuovo alla cartografia, evitando le rappresentazioni di un mondo incentrato su Gerusalemme o Roma comuni nelle mappe europee medievali prima di allora. Si basa sulla Geografia di Tolomeo e sulle carte nautiche contemporanee. Include migliaia di annotazioni derivate da fonti antiche, studiosi medievali, esploratori come Marco Polo e Niccolò de' Conti e testimonianze oculari che Fra Mauro ricevette da viaggiatori a Venezia e di monaci in visita dall'Etiopia. È ricca di immagini iconografiche che rappresentano città, castelli, strade, navi e persino relitti. Leonardo Bellini, miniatore e nipote del famoso pittore Jacopo Bellini, vi dipinse un'immagine del Giardino dell'Eden in un angolo. La mappa fu esposta nel monastero e divenne rapidamente un'icona dello status di Venezia come fiorente centro del commercio e dell'arte globale. 

Vi rimase per 350 anni fino alla soppressione dei monasteri sotto Napoleone nel 1810. Oggi fa parte della collezione permanente della Biblioteca Nazionale Marciana. Nell'edizione digitale della mappa è possibile visionare tutti 2.922 cartigli della categoria "Spazio Geografico", che evidenzia città, paesi, regioni, specchi d'acqua, strade, ponti, rotte commerciali e molto altro ancora. Dal menu è anche possibile selezionare ed esplorare l'itinerario di viaggio di Marco Polo, legato ai luoghi contemporanei su Google Maps. La maggior parte delle selezioni del menu ha audio e video interattivi. Basta fare clic sui pulsanti di riproduzione per avviare spiegazioni dettagliate di ciò che stai vedendo. Abbiamo trovato molto interessante la rubrica "Luoghi leggendari" e le sezioni che contestualizzano la mappa, il suo significato all'epoca, il modo in cui è stata riprodotta e la sua collocazione in una timeline di altre mappe del mondo, anche più antiche, tutte digitalizzate e ad alta risoluzione. Ultima, ma certamente non meno importante, è una libreria digitale, nella quale ogni voce è un libro di geografia e di viaggi collegato alla versione digitalizzata del tomo in questione. Dalla bottega di Fra Mauro proviene anche una bellissima carta marina, oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana, che si distingue dalla produzione cartografica nautica del tempo per la ricchezza dei contenuti cosmografici. Non solo i cartigli la accomunano al mappamondo veneziano ma anche il disegno delle coste del Mediterraneo, che è del tutto coincidente, anche nelle dimensioni. Le due mappe sono perfettamente sovrapponibili, tanto che la scala delle distanze in miglia nautiche tracciata sulla carta marina, secondo la consuetudine del tempo, è legittimamente trasferibile sul mappamondo, permettendoci di misurare la grandezza del mondo allora conosciuto. Il mondo rappresentato da Fra Mauro risulta avere un diametro di circa 11.500 km, ovvero una circonferenza di circa 36.000 km, un dato che si colloca a metà tra i 33.000 km di Tolomeo (II secolo) e i 40.000 di Eratostene (III secolo a.C.).

Il mappamondo di Fra Mauro è stato realizzato nel monastero camaldolese di San Michele in Isola, a Venezia, verso il 1450, rappresenta un ponte tra le conoscenze geografiche medievali e i progetti di esplorazione e commerciali che avrebbero portato pochi decenni più tardi alla scoperta del Nuovo Mondo e alla circumnavigazione dell’Africa. Nel 1942 il governo italiano voleva presentarlo all’Esposizione Universale di Roma come esempio eloquente del contributo italico alle grandi esplorazioni geografiche, e per quella occasione ne fece eseguire una riproduzione facsimile che oggi fa bella mostra tra le collezioni del Museo Galileo. Dipinto e istoriato con colori vivacissimi, il lavoro di Fra Mauro è inscritto in un cerchio di circa due metri di diametro. La rappresentazione geografica è arricchita da oltre tremila cartigli, moltissimi toponimi e centinaia di immagini di città, templi, strade, navi, oltre a un bellissimo paradiso terrestre miniato da Leonardo Bellini. Fra Mauro delinea l’immagine del mondo appena precedente alle navigazioni dei Portoghesi e degli Spagnoli, integrando la Geografia di Tolomeo (ca. 100 - ca. 175 d.C.) con i racconti di viaggio di Marco Polo (1254-1324) e Niccolò de’ Conti (1395-1469). L’ecumene antica si espande verso oriente fino al Giappone e verso sud fino alle latitudini più meridionali dell’Africa che, sebbene non completata, lascia intravedere chiaramente la possibilità della sua circumnavigazione. Oltre ad aver immaginato e definito la possibilità concreta di congiungere il Mediterraneo con l’Oceano Indiano, circumnavigando l’Africa in un’unica immensa rotta, Fra Mauro disegnò una straordinaria e dettagliatissima rappresentazione delle regioni interne dell’Africa. Quella dell’Etiopia, in particolare, rimase insuperata per centinaia d’anni. Fra Mauro si avvalse di carte geografiche che ricevette da monaci etiopi giunti a Venezia, probabilmente per partecipare al Concilio di Firenze (1439-1440), raccogliendone i racconti e le testimonianze. Basandosi su queste notizie raffigurò i regni etiopi ben oltre le latitudini ritenute abitabili da Tolomeo.

Dalla bottega di Fra Mauro proviene anche una bellissima carta marina, oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana, che si distingue dalla produzione cartografica nautica del tempo per la ricchezza dei contenuti cosmografici. Non solo i cartigli la accomunano al mappamondo veneziano ma anche il disegno delle coste del Mediterraneo, che è del tutto coincidente, anche nelle dimensioni. Le due mappe sono perfettamente sovrapponibili, tanto che la scala delle distanze in miglia nautiche tracciata sulla carta marina, secondo la consuetudine del tempo, è legittimamente trasferibile sul mappamondo, permettendoci di misurare la grandezza del mondo allora conosciuto. Il mondo rappresentato da Fra Mauro risulta avere un diametro di circa 11.500 km, ovvero una circonferenza di circa 36.000 km, un dato che si colloca a metà tra i 33.000 km di Tolomeo (II secolo) e i 40.000 di Eratostene (III secolo a.C.). L'edizione digitale del mappamondo, un progetto FISR finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca, è stata curata da Filippo Camerota (Museo Galileo di Firenze) e Angelo Cattaneo (CNR) grazie alla collaborazione istituzionale tra il Museo Galileo, la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e la Nanyang Technological University di Singapore, ed è stato reso possibile grazie a un progetto FISR finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. la Mappa virtuale è stata presentata a Venezia in occasione dell'apertura al pubblico di una nuova ala museale della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia (Ridotti dei Procuratori), all'interno della quale spicca il nuovo allestimento del Mappamondo di Fra Mauro e altri preziosi cimeli cartografici.


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a cura della redazione, 19 marzo

Una collana ad anello d'oro, unica nel suo genere, è stata scoperta su un piccolo promontorio che si protende nella palude intorno a Ilsted, nel sud della Danimarca. Il promontorio è circondato su tre lati da zone umide e offre a malapena lo spazio per un comune podere dell'età del ferro germanico (400-550 d.C.). Secondo gli studiosi ci sono indicazioni che il sito abbia avuto una funzione diversa rispetto a una normale fattoria. Ma più indagini in loco devono determinarlo. Dalla Danimarca si conoscono solo una decina di collane simili. Quella di Ilsted, però, risulta essere abbastanza insolita, sia per la piastra saldata sul suo retro e l'ampio fregio con sottili fili d'oro, sia per il luogo del suo ritrovamento. 

La collana pesa  446 grammi, una frazione sotto una libbra, ed è larga 20 centimetri nel punto più largo. È costituita da un lungo pezzo d'oro a forma di bastoncino ripiegato su se stesso alle estremità per creare una forma ad anello. Le estremità si sovrappongono per circa 1/3 della lunghezza della collana e una placca d'oro è saldata sul retro per creare una terza tela. Le estremità sovrapposte dell'asta sono decorate con una depressione a forma di mezzaluna impressa nell'oro. La decorazione è così meticolosamente dettagliata che le forme a mezzaluna sui due anelli sono leggermente diverse: le mezzelune sull'anello esterno hanno otto avvallamenti decorativi al loro interno, le mezzelune su quelli interni ne hanno sei. La placca d'oro ha sei fili d'oro a coste nella parte inferiore, intrecciati insieme a due a due per creare un effetto chevron. Un filo d'oro attorcigliato a spirale scorre al centro della treccia.In Danimarca sono state trovate solo dieci collane d'oro comparabili con decorazioni stampate, e questa è di gran lunga la più elaborata.

Precedenti esempi di "anelli da collo" di questo periodo sono stati trovati in coppia. Questo è l'unico esemplare con una piastra saldata con intricate decorazioni a filo. È stato scoperto con il metal detector da Dan Christensen nell'ottobre 2021. Christensen lavora come esploratore archeologico per il Museo dello Jutland sudoccidentale. Nella settimana successiva alla scoperta, l'intero campo è stato scansionato per verificare se ci fossero altri oggetti preziosi, disseminati nell'area. 

Non è emerso nulla. Un successivo scavo del sito ha rivelato prove di un insediamento sotto un sottile strato di terreno arato, compresi i fori dei pali portanti del tetto di più case lunghe a tre navate datate tra il 300 e il 600 d.C.. La collana è stato trovata all'interno di una delle case. Gli archeologi ritengono che sia stato sepolto dove è stato trovato. Questo è un contesto insolito per oggetti simili, poiché la maggior parte di essi è stata trovata nelle zone umide dove venivano depositati come offerte votive agli Dei. Il sito del ritrovamento si trova su un promontorio circondato da paludi su tre lati. Il fatto che questa collana sia stata sepolta all'interno di una casa, quando le zone umide erano disponibili a pochi passi in ogni direzione, suggerisce che fosse stata deliberatamente nascosta per tenerla al sicuro durante un periodo di pericolo o agitazione, ma il proprietario non è mai stato in grado di recuperarlo.


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a cura della redazione, 17 marzo

Una matrice in bronzo inedita e sconosciuta di San Giorgio che uccide il drago è stata scoperta nel castello reale di Villers-Cotterêts, nel nord della Francia. L'armatura del cavaliere (con l'uso di un elmo chiuso "da giostra") fa risalire il misterioso sigillo all'inizio del XV secolo. Non è elencato in nessun archivio però. Il castello fu costruito nel 1528. La sua più grande fama deriva dall'essere stato il luogo in cui il re Francesco I firmò l'Ordinanza di Villers-Cotterêts, l'editto che sostituì il latino con il francese in tutti gli atti ufficiali di legge e di governo, in agosto del 1539. È la più antica legge francese ancora in vigore nei tribunali francesi oggi. Gli archeologi stanno scavando nella tenuta reale dal 2020. Il sigillo è stato scoperto in una sacca di carbone in una stanza nell'ala nord del castello. Le matrici dei sigilli erano di grande importanza nel Medioevo, unico mezzo per confermare l'autenticità di una firma, e come tali venivano abitualmente distrutte o seppellite con il proprietario dopo la morte. Il fatto che uno venisse gettato nella brace è stato quasi certamente perso per caso, forse da qualcuno che si scaldava davanti a un caminetto, ed è stato inavvertitamente scartato con le ceneri dal personale. 

La matrice del sigillo è circolare con un supporto traforato sul retro da cui il sigillo potrebbe essere indossato su una catena attorno al collo o legato a una cintura. È cavo inciso sul dritto con un cavaliere a cavallo in armatura a piastre complete. Sotto le gambe del cavallo impennato c'è un drago. È delimitato da un bordo bordato e con la scritta "IP PRI/EUR / DEVILLERS / LESM / OINE". L'iscrizione indica che il sigillo apparteneva al priore del monastero di Saint-Georges, a Villers-les-Moines, dipendente dall'abbazia di-la-Chaise-Dieu (in Auvergne). Situato a circa 1 km a nord-est del castello di Villers-Cotterêts, questo priorato è scarsamente documentato. Fu trasformato in un convento benedettino (Saint-Rémy-Saint-Georges) nel XVII secolo. 

Di questo priorato si sa molto poco, il che rende la scoperta del sigillo del priore ancora più storicamente significativa. Qualche curiosità sui sigilli: sono l'impronta, solitamente su cera, di immagini e/o caratteri incisi in un oggetto di pietra o bronzo chiamato matrice (per estensione, il termine designa anche questa matrice). Apparendo in Mesopotamia nel VII millennio, il sigillo precede leggermente la scrittura. In Francia fu ripreso dall'alto medioevo dai sovrani Merovingi e divenne un diritto sovrano. A partire dal X secolo questo monopolio regio crollò nel tempo a vantaggio dei vescovati, dei principi, del ceto signorile e delle città. Nel XIII secolo, il sigillo era ovunque nella società medievale. Nel Medioevo era l'unico mezzo per autenticare un documento, cristallizzando sulla loro piccola superficie aspirazioni politiche e sociali, modalità di rappresentanza, usi diplomatici e giuridici ma anche pratiche antropologiche. Poche matrici di sigillo sono sopravvissute: alla morte del detentore del sigillo la matrice veniva rotta, fusa o, più raramente, seppellita con il suo proprietario.


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