Il ritrovamento monumento religioso millenario testimonia l’esistenza di un importante centro di culto e pellegrinaggio…


Università Ca' Foscari Venezia27 gennaio 

Gli archeologi hanno trovato uno dei più antichi templi buddisti conosciuti nella città di Barikot, nella regione dello Swat in Pakistan, lungo un antico asse viario. Gli scavi della missione 2021, condotti nell’ambito di una missione italiana in collaborazione con l’Associazione Internazionale per gli Studi Mediterranei e Orientali (ISMEO), hanno portato alla luce un Tempio Shahi dedicato a Vishnu, che misura 21 per 14 metri. In attesa delle datazioni al carbonio-14, le indagini indicano che fu costruito sopra un antico edificio di culto preesistente, databile intorno al 700 a.C. e demolito al tempo della dinastia Ghaznavid, dopo l'anno 1000 d.C.. Secondo il professor Luca Maria Olivieri dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (Dipartimento di Studi Asiatici e Nordafricani), “a quel tempo, Swat era già una terra sacra per il buddismo”.

Oltre all’antica acropoli, gli archeologi hanno scoperto una piccola necropoli, che è stata esplorata in collaborazione con Massimo Vidale dell’Università di Padova. Il tempio scoperto nel 2021 e altri due santuari buddisti scoperti negli ultimi anni si trovano ai lati dell’antica strada, una “via dei templi” lungo la via principale che collegava la periferia della città con l’acropoli. L’antico tempio buddista, alto fino a tre metri, fu costruito su un podio absidale su cui si erge una struttura cilindrica che ospita un piccolo stupa. Sulla facciata del tempio si trova uno stupa minore e il podio di un pilastro o colonna monumentale, oltre ad una serie di stanze del vestibolo che un tempo conducevano ad un ingresso che si apriva su un cortile pubblico. Sulla scalinata che conduce alla cella un’iscrizione dedicatoria in Kharosthi. L’altra metà del gradino è stata ritrovata capovolta, riutilizzata come solaio nella fase successiva del monumento. 

Barikot fu abitata ininterrottamente dalla Protostoria (1700 a.C.) fino al Medioevo (XVI secolo d.C.) e conserva oltre 10 metri di stratigrafia archeologica. La parte del tempio in superficie risale all’incirca alla seconda metà del II secolo a.C., ma potrebbe essere anche più antico, del periodo Maurya, III secolo a.C.. Gli scavi hanno anche rivelato che il monumento è stato costruito sui resti di una struttura precedente affiancata da un piccolo stupa arcaico che precede il periodo indo-greco. Questa scoperta getta nuova luce sulle forme dell'antico buddismo e sulla sua diffusione nell'antico Gandhara, aggiungendo un tassello al puzzle di ciò che sappiamo dell’antica città. Lo scavo è stato condotto da Elisa Iori (Max-Weber Kolleg, Universität Erfurt) vicedirettore della Missione, e Michele Minardi (Università LOrientale di Napoli). La prima missione archeologica italiana in Asia fu avviata da Giuseppe Tucci nel 1955 ed è attualmente guidata dal professor Olivieri, con il cofinanziamento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dalla Direzione Archeologia, del Musei KP Province (DOAM KP) e del Museo Swat.


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Mentre ruotava nel cosmo, l'oggetto "spettrale" ha emesso un raggio di radiazioni ogni 20 secondi, rilasciando una gigantesca esplosione di energia tre volte in un'ora...


a cura della redazione, 26 gennaio

Ne avrete sentito parlare in questi giorni, anche i TG in Italia ne hanno dato notizia. Ma quello che non hanno detto è che il misterioso oggetto incredibilmente luminoso e più piccolo del Sole, scoperto a 4.000 anni luce dalla Terra dall'International Center for Radio Astronomy Research (ICRAR) in Australia, emetteva onde radio altamente polarizzate. Avete capito bene: onde radio dalla Via Lattea. Ed è sempre da quelle parti, si fa per dire, che nei giorni scorsi gli scienziati hanno individuato strutture che pulsano, i cui filamenti sono distanziati in modo uniforme come le corde di un’arpa. 

Certo potrebbe essere una magnetar, una stella di neutroni che ruota lentamente di cui si prevedeva l'esistenza solo teoricamente. Oppure potrebbe essere qualcosa di completamente nuovo per la scienza. Mentre ruotava nel cosmo, l'oggetto "spettrale" ha emesso un raggio di radiazioni ogni 20 secondi, rilasciando una gigantesca esplosione di energia tre volte in un'ora. Gli oggetti che si accendono e si spengono nell'Universo non sono nuovi per gli astronomi, li chiamano "transitori". I "transitori lenti", come le supernove, possono apparire nel corso di pochi giorni e scomparire dopo alcuni mesi. I 'transitori veloci', come le pulsar, si accendono e si spengono in millisecondi o secondi. Il fenomeno registrato nella Via Lattea la scorsa settimana, però, si è acceso per un intero minuto. 

Poi "puff!!!", si è spento come se stesse convertendo l'energia magnetica in onde radio in modo molto più efficace di qualsiasi altra cosa che gli scienziati abbiano visto prima. Perché tutte queste emissioni luminose e sonore registrate improvvisamente dai nostri radiotelescopi? Nel 2006 il radiometro assoluto per la cosmologia, l'astrofisica e l'emissione diffusa (ARCADE) , che la NASA ha costruito per estendere lo studio dello spettro di fondo delle microonde cosmiche a frequenze più basse, registrò un misterioso ruggito dallo spazio lontano. 

E' noto dalla fine degli anni '60 che l'emissione radio combinata di galassie lontane dovrebbe formare uno sfondo radio diffuso proveniente da tutte le direzioni. Ma il ruggito spaziale aveva una frequenza in surplus rispetto al segnale atteso, come se ci fossero sei galassie in più nell'universo lontano, emettendo onde radio che si estendevano ben oltre il disco galattico necessario. Il che richiederebbe un ripensamento completo dei nostri modelli del campo magnetico così come ipotizzato sino ad ora e ci dice anche che qualcosa sta accadendo lassù, dove tutto ebbe inizio...


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Gli scenziati scoprono enigmatiche linee al centro della Via Lattea, a 25.000 anni luce dalla Terra. Oltre a emettere raggi luminosi sembrano essere tarate su precise frequenze radio...


a cura della redazione, 26 gennaio 

Una nuova immagine scattata utilizzando il radiotelescopio MeerKAT in Sud Africa, rivela dettagli incredibili su misteriose “strutture che pulsano” nel cuore della nostra galassia: quasi 1.000 filamenti magnetici, che misurano fino a 150 anni luce di lunghezza, in disposizioni sorprendentemente ordinate e regolari, distribuiti in gruppi all’interno dei quali “i filamenti sono distanziati in modo uniforme, come le corde di un’arpa”. 

LO SAPEVI CHE - Nel 2019, un team internazionale di astronomi ha scoperto una delle strutture più grandi mai osservate nella Via Lattea. Una coppia di bolle che emettono radio raggiungono l'altezza di centinaia di anni luce, facendo impallidire tutte le altre strutture nella regione centrale della galassia.

Secondo l'astrofisico Farhad Yusef-Zadeh della Northwestern University, che li ha scoperti, “assomigliano quasi alla spaziatura regolare nei circuiti solari”. Yusef-Zadeh e i suoi colleghi avevano da tempo individuato una coppia di gigantesche bolle radio-emittenti. Le immagini, allora suggerivano la presenza di una forza magnetica e la presenza d alcuni filamenti. Nell’ultimo articolo, del 26 gennaio 2022, vengono esplorati in modo specifico i campi magnetici dei nuovi filamenti fotografati, 10 volte di più di quelli individuati 3 anni fa, e il ruolo dei raggi cosmici nell’illuminarli. I ricercatori ritengono che la stretta associazione dei filamenti con le bolle implichi che l’evento energetico che ha creato le radio-bolle sia anche responsabile dell’accelerazione degli elettroni necessari per produrre l’emissione radio dai filamenti magnetizzati.

Se la loro variazione nella radiazione sembra essere correlata all’attività del super-massiccio buco nero centrale della Via Lattea, le vibrazioni dei filamenti potrebbero essere innescate dall’attività magnetica delle bolle, che emette radiazioni sia nelle lunghezze d’onda radio che nei raggi X. La notizia più sorprendente è che i campi magnetici presenti risultano essere amplificati lungo i filamenti. L’ipotesi degli scienziati è che vi siano alcune fonti ricettive alla fine di questi filamenti, sollecitate dalla coppia magnetica. Le due radio-bolle ne accelererebbero le particelle proprio come le dita che “pizziacano” uno strumento a corde. Quali suoni emetteranno?


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Il più grande e potente telescopio spaziale del mondo ed è arrivato al punto di osservazione designato alla ricerca dell’alba dell’Universo...


Daily Mail, 24 gennaio

James-Webb “parcheggia” nello spazio profondo A UN MILIONE di miglia dalla Terra. Il più grande e potente telescopio spaziale del mondo ed è arrivato al punto di osservazione designato alla ricerca dell’alba dell’Universo. Lunedì scorso, dopo un viaggio epico, lanciato il giorno di Natale dalla Guyana francese su un razzo Ariane 5, il telescopio della NASA, finanziato dall’Agenzia spaziale europea (ESA), si è stabilito nella sua orbita attorno al Sole nella posizione prefissata, il punto 2 di Langrange, un area di equilibrio gravitazionale tra la il nostro pianeta e l’Astro lucente. 

Gli specchi dell’osservatorio da 10 miliardi di dollari devono ancora essere allineati meticolosamente, i rivelatori a infrarossi sufficientemente raffreddati e gli strumenti scientifici calibrati prima che le osservazioni possano iniziare a giugno. Le immagini che invierà consentiranno agli astronomi di scrutare indietro nel tempo, fino a quando le prime stelle e galassie si stavano formando 13,7 miliardi di anni fa. Gli astronomi utilizzeranno il telescopio per osservare le prime galassie dell'Universo, indagare sui luoghi di nascita di stelle e pianeti e scansionare le atmosfere di mondi alieni alla ricerca di possibili segni di vita. 

Sviluppato dalle agenzie spaziali americane, europee e canadesi e con l'aiuto di appaltatori privati come Lockheed Martin, Webb è stato descritto come il "telescopio più complesso mai costruito". Con le sue capacità a infrarossi, cercherà stelle e galassie antiche, studierà la formazione di stelle, esopianeti e cercherà la vita nella Via Lattea. Il telescopio spaziale ha il potenziale per trasformare letteralmente e figurativamente la nostra visione del cosmo e la nostra comprensione del nostro ruolo in esso. La missione dovrebbe durare per almeno cinque anni, ma l'obiettivo è mantenere il super telescopio attivo per almeno dieci.


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L’ennesimo avvicinamento del Doomsday Clock alla mezzanotte conferma che il mondo rimane bloccato in un angolo estremamente pericoloso…


a cura della redazione, 20 gennaio

L'orologio del “Giorno del Giudizio”, del Bulletin of the Atomic Scientists nel 1947, ogni anno ci dice quanto l’umanità sia vicina all’Armageddon, o se vogliamo al rintocco dell’ultima ora prima dell'Apocalisse. Un’idea bizzarra, nata dalla mente geniale di Albert Einstein e degli scienziati dell’Università di Chicago che hanno contribuito a sviluppare le prime armi atomiche nel Progetto Manhattan: utilizzando un conto alla rovescia virtuale, ci dice ogni anno il grado di pericolosità delle minacce all’umanità e al pianeta. Una sorta di indicatore della vulnerabilità del mondo, sotto la vigilanza di 11 premi Nobel. 

Quest’anno i membri del Science and Security Board hanno hanno fissato le lacette del Doomsday Clock a “100 secondi dalla MEZZANOTTE”, portando l’Orologio il più vicino che mai all’Apocalisse, bloccato in un angolo estremamente pericoloso. Il 75° annuncio mette in evidenza la complessa rete di rischi catastrofici che l’umanità 2.0 deve affrontare, comprese le armi di distruzione di massa, il collasso ambientale e le tecnologie dirompenti. Un allarme che denuncia quanto i leader globali, e con loro l’opinione pubblica generale, non si stiano muovendo nella direzione necessaria per prevenire il disastro. 

«Nonostante gli apparenti sforzi le tendenze negative a sviluppare armi nucleari e biologiche, i cambiamenti climatici e una varietà di tecnologie dirompenti, esacerbate da un’ecosfera dell’informazione corrotta, che mina il processo decisionale razionale, stanno portando il mondo verso l’apocalisse», spiega John Mecklin in una nota ufficiale rivolta ai leader mondiali, il 20 gennaio scorso. Il lavoro del Comitato trae annualmente le proprie conclusioni dopo un’attenta valutazione dei rischi sistemici globali da un punto di vista scientifico, svolgendo anche una precisa analisi delle politiche pubbliche adottate. Le evidenze più rilevanti denunciate dal countdown 2022 sono state: il fallimento della gestione dei piani vaccinali nell’emergenza pandemica in atto, la corsa al nucleare, le preoccupanti carenze in materia di biosicurezza, il perseguimento di programmi di armi biologiche, l’enorme divario tra gli impegni a lungo termine per la riduzione dei gas serra e le azioni poste in atto per raggiungere tali obiettivi, nonostante l’accordo di Parigi, la corruzione dell’ecosistema dell’informazione.


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La prima forma standardizzata di produzione di gioielli conosciuta dall'archeologia risale a 50.000 anni fa....


The Guardian,  20 gennaio 

Gli scienziati hanno scoperto una rete di connessioni fiorita 50.000 anni fa, estesa per migliaia di chilometri in tutta l’Africa. Il più antico “social network” del mondo. Non nell’accezione moderna del termine ovviamente. A differenza dell’equivalente digitale, questa rete di legami sociali si basava sulla condivisione e sul commercio di perline fatte di gusci d’uovo di struzzo, una delle più antiche forme di ornamento personale dell’umanità. Potremmo definirla la prima tecnica standardizzata per la produzione di gioielli conosciuta dall’archeologia.

Un recente studio, pubblicato su Nature il 20 dicembre scorso, ha confrontato le perle trovate in 31 siti nell’Africa meridionale e orientale, che si estendono per oltre 1.800 miglia. La ricerca ha coinvolto lo studio di oltre 1.500 di queste perle. Confrontando il diametro esterno e lo spessore delle pareti del guscio, oltre al diametro dei fori al loro interno, gli scienziati hanno appreso che circa 50.000 anni fa le persone nell'Africa orientale e meridionale iniziarono a produrre perline di struzzo quasi identiche. Eppure questi gruppi e comunità erano separati da grandi distanze, il che suggerisce l’esistenza di una rete sociale a lunga distanza che si estendeva per migliaia di miglia, collegando persone in regioni lontane. 

Invece di fare affidamento sulla dimensione o sulla forma naturale di un oggetto, gli esseri umani hanno iniziato a modellare direttamente i gusci e a creare opportunità per lo sviluppo di variazioni di stile. I modelli risultanti hanno fornito ai ricercatori un percorso attraverso il quale poter tracciare connessioni culturali, anche se non è chiaro se le perle di guscio d'uovo di struzzo fossero state scambiate tra gruppi o se fosse stata scambiata la conoscenza su come fabbricarle. La maggior parte delle prove punta a quest'ultima ipotesi.

Eppure questi gruppi e comunità erano separati da grandi distanze, il che suggerisce l’esistenza di una rete di connessione sociale a lunga distanza che si estendeva per migliaia di miglia, collegando persone in regioni lontane. “Le perline sono indizi, sparsi nel tempo e nello spazio, che aspettano solo di essere notati. È come seguire una scia di briciole di pane”, ha affermato l'autrice principale dello studio, Jennifer Miller, del Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena, in Germania. 

Le perle di guscio d'uovo di struzzo sono alcune delle più antiche forme di auto-decorazione trovate nella documentazione archeologica. Gli scienziati ritengono che uomini e donne abbiano iniziato a indossarle 75.000 anni fa. Tuttavia, l’industria dell’ornamento decollò solo 25.000 anni dopo in Africa. 

Improvvisamente, però, circa 33.000 anni fa il modello industriale è cambiato bruscamente. Pur continuando nell’Africa orientale, sono praticamente scomparse dall’Africa meridionale e non sono riemerse lì fino a 19.000 anni fa.


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I residenti della città di Guryevsk, nella regione di Kemerovo, hanno catturato un insolito tramonto. Sullo sfondo del cielo della città, nella Russia siberiana meridionale, era chiaramente visibile un segno apocalittico fiammeggiante...


a cura della redazione, 19 gennaio

I residenti della città di Guryevsk, nella regione di Kemerovo, hanno catturato un insolito tramonto. Sullo sfondo del cielo della città, nella Russia siberiana meridionale, era chiaramente visibile una croce infuocata. Lo riporta Россия 24 il canale della VGTRK (azienda radiotelevisiva di stato della Russia) nel notiziario del 18 gennaio. 

I meteorologi hanno spiegato che, nonostante il misticismo dell’immagine, esisterebbe una spiegazione per il fenomeno. Sarebbe stato causato da un brusco cambiamento del tempo, iniziato martedì, quando da temperature da positive, sopra lo zero di + 4 gradi, hanno iniziato a scendere drasticamente. 

“Questo, presumibilmente, è un alone dovuto alla rifrazione della luce solare a causa della forma complessa dei cristalli di ghiaccio”, ha spiegato il Centro Idrometeorologico della città. In realtà l'insolito fenomeno sarebbe stato filmato con la fotocamera di un cellulare a Karaganda in Kazakistan anche il 27 dicembre scorso, a circa 1.000 chilometri di distanza. 

Che l'emittente siberiana abbia dato una notizia sbagliata è possibile, trattandosi di un filmato amatoriale, magari la fonte non era stata poi così precisa... ma se così fosse non avrebbe nulla a che vedere con la spiegazione dello sbalzo di temperature data dai meteorologi. Possibile che una croce fiammeggiante sia apparsa due volte a solo un mese di distanza? L'insolito fenomeno era, infatti, già stato riportato a fine 2021 dai sacerdoti di Karaganda nel loro gruppo VKontakte. L'eccezionalità del segno apparso nel cielo, dati i tempi, resta comunque un mistero...


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Viali funerari di 4.500 anni fa sono stati identificati nell'Arabia Saudita nordoccidentale. I viali corrono lungo migliaia di tombe di pietra a forma di ciondolo e coprono circa 600 chilometri...


a cura della redazione, 17 gennaio 

I ricercatori della Royal Commission for AlUla in collaborazione con l’Università dell’Australia occidentale hanno scoperto una rete di strade lunga 170 chilometri in Arabia Saudita, che risalirebbe ad almeno 4.500 anni fa. I viali, che si ipotizza possano essere stati utilizzati per processioni rituali, sono fiancheggiati da antiche tombe a forma di ciondolo, che sembrano avere delle “code”, e  da tumuli ad anello circondati da un muro alto fino a due metri. L’indagine archeologica ad ampio raggio è stata condotta nell’ultimo anno, utilizzando immagini satellitari, fotografie aeree, rilievi del suolo e scavi per individuare i reperti. 

Dai risultati pubblicati sulla rivista The Holocene a dicembre, risulta che i “viali funebri” si estendono su grandi distanze nelle contee arabe nord-occidentali di Khaybar e Al-‘Ula, una vasta area che comprende 22.561 chilometri quadrati e contiene numerosi resti archeologici risalenti a migliaia di anni fa. Una zona dove, secondo Live Science, con l’ausilio di Google è stato identificato un numero presunto di tombe pari a 1 milione. Il team ha potuto per ora verificarne l’esistenza di circa 18.000 lungo i viali funerari, ma solo 80 di queste al momento  sono state campionate o scavate per la ricerca. 

Utilizzando la datazione al radiocarbonio, i ricercatori hanno determinato che un gruppo concentrato di campioni risaliva tra il 2600 e il 2000 a.C., sebbene le tombe sembra siano state riutilizzate fino a circa 1.000 anni fa. Intorno ad al ‘Ayn e al Wadi brevi tratti di viali sono interamente asfaltati e disseminati di una caratteristica roccia rossa, là dove dal pavimento dell’oasi si sale sugli altipiani circostanti dei campi di lava. Entrambi i tratti sono associati a pendenti particolarmente grandi. La stragrande maggioranza dei "ciondoli" lungo i viali funerari sono orientati perpendicolarmente al percorso, indipendentemente dal suo orientamento. Raramente, e senza alcuna relazione distinguibile con le loro dimensioni o la morfologia, sono orientati obliquamente. La posizione della coda dei tumuli rispetto ai viali, inoltre, suggerisce una loro funzione di guida, come una cometa, verso il monumento funerario, con una distanza media l’uno dall’altro tra i 4 e i 10 metri.

Le caratteristiche più sorprendenti di questi viali funerari sono i loro collegamenti a e tra sorgenti d’acqua perenni e il notevole numero di monumenti funebri costruiti attorno a molte oasi, in particolare quelle ai margini dell’Harrat Khaybar. Intervistato dalla CNN, Mat Dalton, autore principale dell’articolo, ritiene che “la rete di viali avrebbe facilitato i viaggi a lunga distanza e seguendo queste reti, le persone avrebbero potuto percorrere una distanza di almeno 530 chilometri da nord a sud”. Ci sono accenni di tali strade nell’Arabia Saudita meridionale e nello Yemen. 

Gli archeologi non sanno molto dei rituali legati a questi luoghi. I resti umani all’interno delle tombe sono stati trovati in cattive condizioni e alcune tombe sono state derubate, lasciandole prive di manufatti. Il ricercatore Eid Al-Yahya intervistato da Arab News, ha sottolineato però che ne esistono più di 100 modelli diversi a  Khaybar, conosciuto anche come Harat Al-Nar, ognuno con una forma architettonica distintiva, dove furono sepolti singoli individui o piccoli gruppi, con i corpi deposti in una posizione fetale. Poiché simili  monumenti non potevano essere aggiunti o allungati una volta che la coda e la testa dei “ciondoli” erano state costruite, i ricercatori ritengono siano stati progettati con un disegno ben preciso, pensando a una dimensione e una forma finali. Inoltre, i pendenti dello stesso tipo mostrano spesso raggruppamenti distintivi. Comunemente, coppie di dimensioni simili si fronteggiano lungo un viale, come gemelli orientati in parallelo, creando una sorta di “portale” visivamente impressionante.

“Queste tombe - spiega - simboleggiano le costruzioni fatte da persone che vivevano in prosperità, non in un deserto arido, e puntano verso il cielo, testimoniando una civiltà che aveva un’antica tradizione celeste”. Più o meno nello stesso periodo in cui furono costruite le tombe e i viali di Khaybar, gli antichi Egizi avrebbero costruito le loro piramidi, sempre che quelle della Piana di Giza non siano più antiche. In Arabia Saudita sono state trovate grandi strutture in pietra che risalgono a migliaia di anni prima e che non sembra abbiano ricevuto linfluenza neppure delle civiltà fiorenti in Mesopotamia, a nord dell’Arabia, dove troviamo grandi città e templi a forma di piramide, conosciuti come ziggurat.  Le strutture a forma di cancello chiamate mustatil furono costruite, infatti, 7.000 anni fa e potrebbero essere state utilizzate per un culto preistorico.


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Una strana placca di metallo, a forma di "occhio alato" è stata impiantata nella testa dolicocefalica di un antico guerriero peruviano quando era ancora in vita…


Dauly Star, 16 gennaio

Il teschio allungato di un uomo che visse duemila anni fa in Perù, conservato oggi al Museo di Osteologia dell'Oklahoma, sta suscitando molto scalpore. Dopo essere stato ferito alla testa durante una battaglia, sembra sia stato sottoposto a un intervento chirurgico al cranio. Per sigillare il foro nella testa fu utilizzato uno strano metallo. L’operazione sembra sia stata praticata con successo facendo sopravvivere l’uomo. Il rimodellamento osseo della calotta cranica dimostrerebbe, infatti, che ha superato l’intervento. Il che lo rende uno straordinario esempio di chirurgia avanzata precoce. Non è ancora chiaro quale tipo di metallo sia stato utilizzato, in quanto non è stata condotta ancora alcuna analisi per determinarne l’effettiva composizione. In attesa dei risultati, ciò che rende tutto ciò ancora più sorprendente è che questa incredibile operazione chirurgica al cranio sarebbe avvenuta senza alcuna anestesia o altre moderne tecniche mediche, che all’epoca non esistevano. A infittire il mistero, la placca di metallo utilizzata ha una strana forma, che ricorda l'occhio di Horus.

La pratica di fori al cranio è certamente una procedura chirurgica tra le più antiche al mondo, ma non un intervento di ricostruzione ossea attraverso l’ausilio dei metalli. Esempi di trapanazione si hanno già nel periodo neolitico e i paleontologi hanno collezionato teschi perforati di tutte le epoche, provenienti da tutto il mondo: Europa, antica Grecia, Mesopotamia, Cina, Russia e soprattutto dall’Impero Inca. La procedura raggiunse il suo apice in Perù tra il XIV e il XVI secolo d.C.. Gli obiettivi di una simile pratica nel corso della storia sono stati diversi: dal permettere al sangue di defluire dal cranio dopo una lesione, come descritto da Ippocrate, al suo uso in Europa come trattamento per l’epilessia e le malattie mentali. Alcuni hanno persino suggerito che la trapanazione del cranio fosse eseguita per scopi rituali. 

Il fatto che il cranio del guerriero peruviano fosse allungato, potrebbe essere un altro enigma da risolvere. È pur vero che in passato la dolicocefalia, come si chiama in gergo tecnico, era una pratica diffusa. Nel corso della storia, molte culture hanno deformato artificialmente i crani dei bambini per ottenere una forma appiattita o allungata che era spesso associata alle classi dirigenti o d'élite. Prove di questo tipo di deformazione cranica artificiale sono state scoperte nelle Americhe, in Australia, in Medio Oriente e in Russia. E proprio per questo i ricercatori accademici sono generalmente scettici su ipotesi alternative di una razza sconosciuta, per non dire "aliena". 

Li vedono come semplici teschi umani deformati artificialmente, il risultato di una fasciatura della testa per ottenere una forma appiattita. La modellatura deliberata della testa era, infatti, una forma di modifica culturale del corpo, che serviva per affermate la propria identità o un rito iniziatico. Per alcuni scienziati il più delle volte si tratterebbe, addirittura, di semplice idrocefalia. Chi studia l’evidenza di anomalie nei crani, però, non si accontenta di credere nel dogma della modificazione cranica. Persone come Brien Foerster, Lloyd Pye, Graham Hancock, per non dimenticare  Michael Cremo. vanno oltre le prospettive convenzionali esaminando e registrando le prove, piuttosto che assumere come definitive le conclusioni raggiunte da ricercatori precedenti. 

Sebbene fornisca prove di un intervento chirurgico al cranio precoce, quello del Museo di Osteologia non è il più antico esempio al mondo. Ci sono prove più antiche, come il teschio rinvenuto nel Sudan, che risale a 7.000 anni fa. Un mistero ancora tutto da svelare..


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Misterioso tumulo regale nel nord della Tuva. Gli archeologi scoprono i resti di una donna ornata con un raro pettorale d’oro a forma di mezzaluna...


Nauka W Polsce, 14 gennaio

Nel nord della Tuva, una repubblica autonoma nella parte asiatica della Federazione Russa, si estende quella che gli archeologi chiamano la “Valle dei Re siberiana” per le numerose, enormi tombe a tumulo, con ricchi arredi, risalenti a oltre 2.500 anni fa. Qui una spedizione russo-polacca, guidata dal dottor Łukasz Oleszczak dell’Università Jagellonica di Cracovia, ha scoperto i resti di una donna ornata con un raro pettorale d’oro a forma di mezzaluna. Il tumulo dove è stato rinvenuto il corpo si trova a Chinge-Tey, nella valle Turano-Ujukska. Il suo corredo funerario comprendeva anche orecchini d’oro, un coltello di ferro e un pettine di legno inciso collegato da un anello di cuoio a uno specchio di bronzo. 

Si pensa che la sepoltura risalga al VI secolo a.C., quando la valle fu occupata dalla cultura nomade degli Sciti Alda-Bielsko. Allora, la valle del Turano-Ujuk era uno dei centri rituali più importanti dell’intero mondo scita-siberiano. È da qui, dalle montagne della Siberia meridionale, che proviene questo misterioso popolo che dominò le steppe dell’Europa orientale. Molto di quello che sappiamo di questa gente dagli occhi cerulei e dai capelli color fuoco ce lo ha tramandato Erodoto. Insediatisi lungo la costa settentrionale del Mar Nero, gli Sciti vengono descritti come abili domatori di cavalli e arcieri formidabili, legati a inquietanti tradizioni, come bere il sangue del proprio avversario abbattuto in battaglia.

LO SAPEVI CHE: Tamara Rice, in “Gli Sciti” (Il Saggiatore, 1958) afferma che presso questo popolo fosse diffuso il culto della Grande Dea, già adorata nella Russia meridionale prima del loro avvento, raffigurata in numerosi reperti rinvenuti nei corredi funebri talvolta con il corpo metà umano e metà di serpente, spesso circondata dai suoi animali sacri, il cane e il corvo. Con uno scettro o uno stendardo, figurava quale protettrice del capotribù e nume tutelare dei giuramenti, oppure al centro di un rituale di iniziazione. È stato ipotizzato che le principesse e le spose dei sovrani sciti fossero inoltre le sacerdotesse della Grande Dea e che, in occasione dei riti, indossassero abiti particolari, gli stessi che le avrebbero accompagnate nell’oltretomba.

Erodoto attesta una straordinaria fascinazione negli Sciti per l’oro, metallo di valenza magica e fondamento del potere, in quanto ponte tra l’umano e il divino. Per questo popolo il re era il custode dell’oro sacro. Un altro elemento fondamentale della vita di questi nomadi era il cavallo: compagno in vita e nell’oltretomba. Dal suo latte ricavavano una bevanda particolare: il kumys. C'è chi sostiene appartenessero a un gruppo indoeuropeo di ceppo iranico e chi invece ne identifica le origini nei popoli ugro-altaici. Alcuni ricercatori ritengono, infatti, che discendessero dalla cultura Srubnaya, la così detta civiltà delle tombe di legno, vissuta durante l'età del bronzo tra il Volga e il nord del Mar Nero; altri invece pensano che gli Sciti provenissero dall'Asia centrale o addirittura dalla Siberia e che poi, nel corso delle loro migrazioni, abbiano finito per fondersi con le popolazioni preesistenti nella zona.

Il tumulo, danneggiato al punto da essere quasi livellato, è stato rilevato solo grazie alla scansione laser aerea, che ha individuato la struttura circolare di oltre 25 metri di diametro. Scavando gli archeologi hanno scoperto al suo centro una camera funeraria in legno. Era stata costruita su una struttura di assi di legno a incastro, sormontata da tre strati di travi per formare una volta. 

All’interno c’erano gli scheletri della donna, di circa 50 anni, e di un bambino di due o tre anni. Gli studiosi stanno ancora analizzando gli ornamenti organici rinvenuti in situ, che ricordano le usanze scite di indossare strumenti e vesti fatti gli scalpi dei loro nemici, in particolare scettri rivestiti con spirali di pelle umana a forma di serpente. “Un monumento particolarmente interessante, come il pettorale d'oro, un ornamento a forma di mezzaluna o lunare appeso al collo” - osserva Oleszczakel nel comunicato stampa, sottolineando che tali oggetti, presenti nei tumuli funerari nella Siberia meridionale, sono stati trovati, finora, quasi esclusivamente in tombe di uomini e sono considerati un simbolo di appartenenza a qualche gruppo sociale, una casta, forse sacerdotale. “Metterlo nella tomba di una donna è un allontanamento molto interessante da questa usanza. Dimostra certamente il ruolo unico della defunta nella comunità degli abitanti della Valle dei Re”, spiega l’archeologo. 

La donna è stata sepolta nella parte centrale della tomba situata nelle immediate vicinanze di un altro grande tumulo appartenente – come ritengono gli studiosi – al principe dei nomadi. Nel 2021, gli archeologi polacchi hanno continuato le loro ricerche, i cui scavi erano iniziati due anni prima. Poi trovarono due sepolture: quella centrale, derubata, e quella laterale, che era intatta e conteneva il corpo di un giovane guerriero. Si tratta di una delle 10 tombe poste in fila sull’asse nord-sud nella parte occidentale della necropoli. Durante l’ultima stagione di scavi è stata scoperta anche una seconda tomba, che si trova all’esterno della trincea che circonda il tumulo. Era lo scheletro di un adolescente, posto in una piccola fossa con una staccionata di pietra. Era stato spogliato di qualsiasi attrezzatura. 

Le sepolture di bambini attorno al perimetro dei tumuli o appena fuori dal fossato che circonda la tomba sono un elemento permanente del rito funebre di questa prima cultura scitadice Oleszczak. Gli archeologi hanno trovato prove che attorno al perimetro del tumulo era stato depositato un tesoro di oggetti in bronzo, andato disperso a causa dei lavori agricoli effettuati nella zona durante il XX secolo. Ciò è dimostrato dal ritrovamento di diverse dozzine di parti di una fila di cavalli, un'ascia di bronzo, probabilmente utilizzata per gli scalpi che questo popolo era solito fare dei propri nemici, e un ornamento a forma di capra, emblema della loro cultura zoomorfa. La loro rilevazione è stata possibile grazie all’utilizzo di un metal detector. Gli scavi, ancora in corso, sono stati condotti in collaborazione con gli scienziati del Museo statale dell'Ermitage di San Pietroburgo, sotto la direzione di Konstantin V. Chugunov, grazie ai fondi del National Science Center.


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Una missione tedesco-egiziana ha portato alla luce una collezione di enormi pezzi di calcare appartenenti a una coppia di sfingi reali, nonché i resti di pareti e colonne decorate con scene festive e rituali a Luxor...


Ahram Online, 13 gennaio 

Una coppia di sfingi calcaree e pezzi di pareti e colonne decorate con scene festive e rituali, sono stati portati alla luce nel tempio di Amenhotep III di Luxor da un team di ricercatori tedesco-egiziani guidati dall'archeologo Hourig Sourouzian. Mostafa Waziri, segretario generale del Consiglio Supremo delle Antichità ha detto che le colossali sfingi, che misuravano circa 8 metri di lunghezza, sono state trovate semi sommerse nell’acqua, sul retro dell’ingresso del terzo pilone, poste presumibilmente all’inizio del percorso processionale che porta alla Corte del Peristilio. Le loro teste raffigurano Amenhotep III che indossa il copricapo a strisce di nemes, la barba reale e un ampio colletto intorno al collo. 

La pulizia del calcare ha rivelato l’iscrizione “l’amato di Amon-Ra" su uno dei pettorali. Le basi delle colonne e i blocchi di fondazione trovati nella parte meridionale della sala ipostila del tempio indicano che la struttura era più grande e aveva più colonne di quanto si pensasse in precedenza, mentre le decorazioni murali in arenaria mostrano immagini della festa giubilare di Heb-sed di Amenhotep III. Basi di colonne e blocchi di fondazione nella metà meridionale della sala ipostila mostrano che questa sala era molto più grande di quanto si pensasse e con più colonne. La missione ha anche scoperto tre busti e tre parti inferiori di statue della dea leonessa Sekhmet in granodiorite sulla facciata della Corte Peristilio e nella Sala ipostila del tempio. Questi pezzi verranno riassemblati con altri trovati in precedenza nel sito e saranno esposti nel tempio.


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Un particolare segmento di DNA ridurrebbe il rischio di sviluppare l’infezione critica da COVID-19. Stiamo andando verso nuovi tipi di trattamento a modifica genetica per aumentare la risposta immunitaria?


a cura della redazione, 13 gennaio

Fin dall’inizio della pandemia, gli scienziati hanno studiato alacremente in che modo la genetica del paziente influenzi la gravità di un’infezione da SARS-CoV-2 , esponendo i fattori ereditari che sembrano proteggere le persone o predisporle a gravi manifestazioni della malattia. Ora un metastudio internazionale guidato dai ricercatori del Karolinska Institutet, in Svezia, ha identificato una specifica variante del gene che protegge dall'infezione grave da COVID-19. 

Basandosi sui risultati della fine del 2020, che avevano rivelato numerosi meccanismi genetici legati a casi potenzialmente letali di COVID-19, un team internazionale di ricercatori ha identificato una variante genetica specifica che può conferire protezione da malattie critiche. In un’analisi di 2.787 casi europei di persone positive al coronavirus, incrociati ai dati genetici di 130.997 individui di discendenza africana, i ricercatori hanno identificato un allele nel gene rs10774671 che conferisce protezione contro il ricovero da COVID-19. La variante comune rs10774671 G esiste oggi sia negli africani che negli europei “come risultato della loro eredità dalla popolazione ancestrale comune sia agli esseri umani moderni che ai Neanderthal”, scrivono i ricercatori nel loro articolo.

Nello studio, pubblicato a gennaio su “Nature Genetics” gli scienziati suggeriscono che l’effetto protettivo è dovuto all’influenza esercitata da tale variante sul gene OAS1, che codifica una proteina più lunga e più efficace nell’abbattere il SARS-CoV-2 rispetto alla forma inalterata. “Il fatto che stiamo iniziando a comprendere nel dettaglio i fattori di rischio genetici è la chiave per lo sviluppo di nuovi strumenti contro il COVID-19”, afferma il genetista Brent Richards della McGill University in Canada su Scinece Alert. L’intuizione, però, rischia di portare verso tipi di trattamento a modifica genetica per aumentare la risposta immunitaria.


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